PPP e il “destino d’opposizione”. Una riflessione di Antonio Tricomi

Pubblichiamo un interessante contributo, già edito su “Pagine corsare” (27 agosto 2013), di Antonio Tricomi, giovane esponente dell’ala militante della critica letteraria e acuto e problematico studioso dell’opera pasoliniana. Del suo originale approccio esegetico dà prova anche questo saggio in cui è affrontato il “destino di opposizione” a cui, secondo Pasolini, è ontologicamente  vincolato il linguaggio artistico, anche  con l’esito estremo della sua improduttiva solitudine. Da lì, per Tricomi, la possibilità di parlare  di “due Pasolini”, il primo ancora “gramscianamente” motivato, il secondo disperatamente isolato.

Due Pasolini
di Antonio Tricomi

http://www.affronto.it – 2013

Pasolini è, dall’inizio alla fine, un autore impolitico, non, però, perché la sua sia una visione estetica del mondo e, dunque, egli si cali soltanto volontaristicamente nella tematica dell’impegno, come nota Asor Rosa. Al contrario, in Pasolini la vocazione politica è assolutamente autentica, soltanto che mai essa è sostenuta e guidata da una vera e propria cultura specificatamente filosofica e politica. A questa Pasolini sostituisce, reputandola in tutto e per tutto equivalente, una cultura più strettamente letteraria e figurativa, perché considera intrinsecamente politica, e cioè sovversiva, l’arte in sé.
L’artista per Pasolini è il solo in grado di contestare, mettendolo irrimediabilmente in crisi, lo stato esistente delle cose e, dunque, le gerarchie sociali e gli stereotipi culturali consolidati. E’ colui che condanna in qualche modo se stesso ad un vero e proprio “destino d’opposizione” (come si legge in Progetto di opere future, contenuta in Poesia in forma di rosa), mai fine a se stessa e mai semplice espressione di una rivolta puramente individuale, ma sempre inserita nel contesto di una dialettica e di una lotta tra classi sociali o, una volta consumatasi la dissoluzione di queste, tra blocchi trasversali di potere. Ecco, allora, che per Pasolini, in quanto artista e, dunque, intellettuale, la prima questione da affrontare è, per così dire, di tipo tattico e strategico, riguarda, cioè, il giusto posizionamento, la corretta definizione della propria utilità pubblica e del proprio ruolo specifico all’interno della società classista prima, interclassista poi.
E’ in merito a questo problema che scopriamo l’esistenza di due Pasolini. Il primo convinto della persistenza di una cultura e di una classe sociale genuinamente popolari e contadine, delle quali farsi autorevole portavoce al cospetto della cultura e della classe dominanti, quelle borghesi, così da tentare di contrattare con esse, in nome e a vantaggio del popolo, la gestione del potere non soltanto economico e politico, ma anche, e forse soprattutto, culturale. Per Pasolini, infatti, la vera lotta non è quella per la conquista del potere: il fascismo rappresentò il trionfo massimo della piccola e media borghesia, ma ciononostante probabilmente mai come allora la cultura popolare seppe dimostrare la propria vitalità. Anzi, soltanto rimanendo ai margini del potere ed escluso da esso il popolo può evitare di perdere la propria specifica identità, può rappresentare un’alternativa concreta alla cultura borghese. Ciò, da un lato, spiega le ragioni delle critiche mosse da Pasolini al prospettivismo lukàcsiano; dall’altro, dimostra che non sono del tutto infondate le accuse di populismo in più circostanze rivolte a Pasolini.
E poiché a quest’altezza, per ammissione dello stesso Pasolini, sono la filosofia gramsciana ed il modello dell’intellettuale organico ivi delineato a costituire i suoi punti di riferimento, occorrerà immediatamente dire che si tratta di un Gramsci palesemente corretto con Rousseau. Il posizionamento di questo primo Pasolini, dunque, risulta del tutto eretico da un punto di vista strettamente marxista e materialista perché egli non vede in maniera corretta la dinamica e la dialettica tra struttura e sovrastruttura, mentre non contraddice affatto una visione del mondo e della società meno laica, più religiosa e cattolica, addirittura. Ecco, allora, spiegato perché, con Gramsci e Rousseau, è Cristo il terzo modello di riferimento, il terzo exemplum al quale Pasolini si ispira. Ve ne sono, ancora, un quarto, Freud, ed un quinto, che non ha nome semplicemente perché potrebbe averne svariati: il già citato Rimbaud o Pascoli, ad esempio. E’, insomma, il poeta, santo, martire e profeta.

"I tre allegri ragazzi morti". Disegno di Davide Toffolo
“I tre allegri ragazzi morti”. Disegno di Davide Toffolo

Il secondo Pasolini è quello che poi, con il tempo, diverrà il Pasolini corsaro e luterano. Il Pasolini, insomma, che nota come lo stato democratico borghese ed il tardo capitalismo siano riusciti laddove anche il fascismo aveva fallito: distruggere la cultura popolare e contadina. Nel regime tecnocratico, cioè, ogni uomo è intrinsecamente e inevitabilmente un uomo medio, in altri termini borghese; risultano ormai dissolte le varie classi sociali; ciascun individuo è in lotta con l’altro per difendere il proprio diritto individuale all’esistenza. Perduto è quel senso del sacro che sempre aveva contraddistinto la civiltà contadina; non possono più esservi trasgressione e scandalo, dunque lotta e rivoluzione, poiché il potere, tollerante e capace di recuperare a sé qualsiasi spinta centrifuga, riesce immediatamente a convertire queste istanze di contestazione in puro spettacolo, consumo, merce, in momenti, insomma, del proprio consolidamento.
L’arte, allora, divenuta anch’essa spettacolo e merce, perde tutto il proprio valore politico e d’opposizione, trasformandosi in un’arma in più a disposizione del regime democratico e borghese. Si impone, inoltre, una lingua nazionale fortemente unitaria, comunicativa ma non espressiva, dunque asettica, piatta, specialistica, morta già in partenza, laddove, in passato, la lingua italiana era sempre stata viva ed in continua evoluzione, perché continui erano stati gli scambi, le interferenze tra l’italiano ufficiale e scritto, modellato sul toscano della nostra tradizione letteraria, e i dialetti, lingue non scritte e d’uso, ora invece esistenti solo nominalmente, ma di fatto privi di identità propria.
Ciò che, insomma, Pasolini chiama omologazione linguistica e culturale è un vero e proprio genocidio, frutto di uno sviluppo senza progresso. In questo mutato contesto, Pasolini sente l’esigenza di ripensare e ridefinire il proprio posizionamento e capisce di non poter più guardare alla filosofia gramsciana ed in verità neanche a quel marxismo comunque eretico dal quale fin lì egli comunque aveva preso le mosse.
Uccellacci uccellini, tra le altre cose, inscena proprio questo congedo da Gramsci e Marx. Infatti, sebbene nella già citata Progetto di opere future, che precede di poco Uccellacci uccellini, egli dichiari la volontà d’impegnarsi nella costruzione di un’opera monumentale che nascerà “sotto il segno primario di Marx, e quello, a seguire, di Freud” e che poi sarà, dieci anni dopo circa, Petrolio, il lettore di Pasolini sa bene che le opere che precedono ed annunciano quel suo testo postumo devono moltissimo a Freud, ma più nulla, o quasi nulla, devono a Marx. Conscio, infatti, di non poter più rappresentare l’anello di congiunzione tra due classi sociali, essendo stata l’una omologata ed assorbita dall’altra, Pasolini di fatto diventa l’interlocutore ed il portavoce di se stesso, accelera e intensifica un vero e proprio processo di trasformazione di sé in icona vivente ed in feticcio.

Pasolini davanti alla tomba di Gramsci
Pasolini davanti alla tomba di Gramsci

Egli, infatti, conduce una battaglia tutta sua contro la borghesia dominante, questo è evidente, ma anche contro quegli ultimi rappresentanti della cultura e della classe popolari più disposti a salire nella graduatoria sociale, e cioè a farsi omologare, diventando da sottoproletari proletari, che a resistere al genocidio operato dalla vigente civiltà tecnocratica. In un certo senso Pasolini vede nel regime democratico e borghese la perfetta realizzazione di una sintesi orrenda, frutto di quella dialettica ch’egli non considerò mai una descrizione corretta della dinamica dei processi storici e di quell’ottimismo puramente utopico e consolatorio, consustanziale all’idea marxiana di lotta di classe, che egli sempre contestò.
Ed allora, contro Hegel e contro Marx, Pasolini scopre e teorizza l’esistenza di un andamento della storia e del pensiero non dialettico, che prevede la coesistenza di tesi ed antitesi. L’intera struttura di Petrolio, ad esempio, nascerà da questa convinzione e dimostrerà che l’avvenuta omologazione culturale e linguistica non esclude del tutto la possibilità della persistenza di una dimensione autenticamente altra, di uno spazio, un recinto, all’interno del quale si conservi il senso del sacro, secondo, però, i criteri di una logica, appunto, non del superamento, ma della convivenza nel presente di stadi di civiltà cronologicamente sfalsati e gli uni antecedenti gli altri. Pasolini, insomma, non concepisce più il tempo in maniera lineare, ma tutt’al più circolare, come nella postmodernità, e nei testi letterari più significativi di questi ultimi venti o trenta anni, diverrà praticamente abituale.
Il dato più significativo è, tuttavia, un altro. Il primo Pasolini era uno scrittore e un cineasta che aveva saputo amalgamare un’ispirazione simbolista di partenza con gli stilemi e le tecniche narrative del neorealismo, convinto di dover raccontare la realtà che aveva sotto gli occhi (la vita rurale, le borgate) e di poterlo fare, volendo, anche attraverso il filtro del mito, e soprattutto di quello che per Pasolini è il mito per eccellenza, ovvero il mito cristiano. Non si dava, infatti, contraddizione logica tra mito e realtà. Nel momento, però, in cui scompaiono la cultura e la classe contadine, che in qualche modo quel mito cristiano detengono e continuamente alimentano e rendono attuale nelle forme di una religiosità istintiva, naturale, quasi pagana e animistica, si consuma un divorzio assoluto tra mito e realtà. Se per il primo Pasolini realismo e mito non sono in opposizione, ma si identificano, per il Pasolini, invece, corsaro e luterano, il mito è la realtà nel senso che l’ordine esistente delle cose, cioè il regime democratico-borghese omologante e neofascista, è una cattiva realtà, falsa, inaccettabile, una catastrofe storica, laddove il passato e la forma di rappresentazione che lo contiene e salvaguardia, cioè il mito, sono, essi sì, dimensioni in tutto e per tutto positive e, dunque, le uniche forme di realtà autentica, non degradata.

Pasolini come "allievo di Giotto", da "Decameron" (1971)
Pasolini come “allievo di Giotto”, da “Decameron” (1971)

Il mito, cioè, non spiega la realtà dei fatti storici ed il presente, ma si sostituisce, nell’ottica pasoliniana soprattutto degli anni Settanta, agli uni come all’altra, riscattando la loro totale negatività. Ad un primo Pasolini, a suo modo ancora storicista, succede, dunque, un Pasolini nemico dichiarato di qualsivoglia forma di storicismo, un Pasolini per il quale il mito per eccellenza diventa ora quello dell’esistenza, nei secoli, di una irrinunciabile tradizione letteraria da salvaguardare assolutamente dall’attacco della nuova civiltà post-umanistica e tecnocratica. Nascono così la Trilogia della vita e Petrolio, concepiti come attualizzazione di quel mito e di quei testi fondamentali che lo compongono, la prima; come biblioteca, summa, galleria di capolavori recuperati ed esposti, il secondo.
Questo Pasolini vede quella rivoluzione antropologica che egli stesso definisce tale e che oggi possiamo tranquillamente definire il momento di passaggio dalla modernità alla postmodernità, ma non può darcene un ritratto fedele o avere di essa una giusta percezione, perché egli la rifiuta a priori e ne prende radicalmente e pregiudizialmente le distanze. Il che non significa che Pasolini non abbia spesso colto nel segno, quantunque anche la presunta e drammatica lungimiranza dei suoi scritti, delle tesi in più circostanze sostenute e delle sue strategie espressive andrebbe, talora, ridimensionato. Ad esempio, Pasolini non si accorge del fatto che proprio una strenua difesa della letteratura e del suo valore, e dunque della tradizione letteraria e della civiltà umanistica, quale egli conduce, in un contesto nel quale, con la dissoluzione delle classi, l’autore non può più dare una motivazione sociale e politica in senso lato di questa difesa, rischia di risultare del tutto sterile. Da un lato, infatti, quest’autore non può parlare, ormai, che a titolo personale, e cioè non può che difendere la propria mera esistenza; dall’altro, insistendo sul valore della tradizione letteraria in quanto tale, egli non può che avallare, in un certo senso, quella strategia di estetizzazione della vita quotidiana ancora oggi sotto i nostri occhi.
Anzi, forse è più corretto dire che in ultimo Pasolini si accorse dei rischi connessi alla propria intransigente difesa dell’umanesimo e della letteratura: di qui la sconfessione della Trilogia, di qui, soprattutto,Salò.

[info_box title=”Antonio Tricomi” image=”” animate=””]nato nel 1975, ha conseguito la laurea in “Lettere” presso l’Università degli Studi di Pisa e il titolo di dottore di ricerca in “Scienze letterarie, retorica e tecniche dell’interpretazione” presso l’Università della Calabria, dov’è stato poi titolare di un assegno di ricerca biennale e, per un quinquennio, anche cultore della materia “Letteratura italiana moderna e contemporanea”. Dall’anno accademico 2005-2006 all’anno accademico 2008-2009 ha collaborato all’organizzazione e alla gestione del seminario di Cinema e Filosofia diretto da Mario Pezzella presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Nel periodo compreso tra l’anno accademico 2008-2009 e l’anno accademico 2013-2014 è stato docente a contratto di varie discipline presso l’Università degli Studi di Macerata: “Storia e critica del cinema”, “Conservazione e gestione del patrimonio audiovisivo”, “Cinematografia documentaria”, “Letteratura e cinema”, “Critica letteraria italiana”, “Letterature comparate”. Nell’anno accademico 2010-2011, in qualità di contrattista, ha insegnato “Letteratura italiana moderna e contemporanea” presso l’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino.
Ha pubblicato i volumi di saggistica Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio (Carocci, Roma 2005); Pasolini: gesto e maniera (Rubbettino, Soveria Mannelli 2005); Il brogliaccio lasco dell’umanista. Cinema, cronaca, letteratura (Affinità Elettive, Ancona 2007); La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea (Quodlibet, Macerata 2010); In corso d’opera. Scritti su Pasolini (Transeuropa, Massa 2011); Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta (Galaad Edizioni, Giulianova 2014). Con Leonardo Mancino, ha curato E Volponi ci manca (fascicolo monografico della rivista “Hortus”, n. 27, 2004). Con Rino Genovese e Mario Pezzella, ha curato Il cinema non è il cinema (fascicolo monografico della rivista “Il Ponte”, n. 4, 2008). Con Mario Pezzella, ha curato i volumi I fantasmi del moderno. Temi e figure del cinema noir (Cattedrale, Ancona 2010); I corpi del Potere. Il cinema di Aleksandr Sokurov (Jaca Book, Milano 2012). E’ inoltre autore del testo di quasi-versi la polvere (Stamperia dell’Arancio, Grottammare 2006). Nel 2001, per le edizioni Guaraldi, ha pubblicato due e-book: il saggio La biblioteca ‘Petrolio’: costruzione di un intertesto e il falso diario Rimasugli di anima sporca. In qualità di critico letterario, ha collaborato con “Saturno” (supplemento culturale – non più edito – de “il Fatto Quotidiano”) e con “Panorama”. E’ stato redattore delle riviste “I Fogli di ORISS” e “Smerilliana”, della quale è anche stato vicedirettore. E’ tuttora redattore della rivista “Il Ponte”. Ha ideato e diretto, insieme con Enrico D’Angelo, la collana di letteratura e saggistica “Mosaico”, pubblicata dall’editore anconetano Cattedrale.[/info_box]