“Povero come un gatto del Colosseo”: Pasolini e le borgate romane

“Povero come un gatto del Colosseo”: Pasolini e le borgate romane

“Pasolini, Roma e le borgate” – Video di Angela Molteni, dedicato al professore Fabien Gerard

Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno
era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine
[…].

Così scriveva Pasolini in una delle sue più famose poesie, Il pianto della scavatrice, inserita nella raccolta Le ceneri di Gramsci, pubblicata nel 1957, quasi all’indomani dell’enorme successo incontrato dal suo primo romanzo Ragazzi di vita (1955).
Che le borgate, per il poeta friulano trapiantato a Roma, abbiano rappresentato, metaforicamente, la chiave d’accesso non soltanto per una più compiuta (o assoluta) conoscenza della Capitale così come andava formandosi e trasformandosi nell’immediato dopoguerra, ma anche la materia vivente e cangiante (caoticamente cangiante) sulla quale e alla quale dare la forma a cui anela ogni grande poeta, credo sia confermato e dal contenuto delle poesie e dei romanzi, così come dei primi grandi successi cinematografici (Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Uccellacci e uccellini), ma anche dall’essere assurto (quel mondo delle borgate anni Cinquanta, rivissuto e idealizzato nella memoria) a pietra di paragone per il fenomeno dell’omologazione – indotta dal consumismo sfrenato – che Pasolini denunciava negli ultimi saggi e articoli dei primi anni Settanta.
E una elaborazione di una “visione del mondo” che Pasolini declinò e sublimò in versi che posseggono, ancora oggi, un’incredibile capacità di commuovere, in immagini e sequenze che rappresentarono, all’epoca, un’autentica rivoluzione in campo cinematografico, in storie romanzesche che seppero offrire nuova linfa ad un neorealismo che rischiava, a metà degli anni Cinquanta, di diventare ripetitivo e anacronistico di fronte all’avanzare dell’industrializzazione.
Per ritornare a Roma, a quella città “stupenda e misera” del Pasolini giovane e povero immigrato dal profondo Nord, egli ci svela, nei versi della medesima poesia prima citata, il profondo significato racchiuso nell’intimo di quell’umanità disperata disseminata nelle borgate periferiche: “Stupenda e misera città che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini, le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre … a difendermi, a offendere, ad avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore, a capire che pochi conoscono le passioni in cui sono vissuto. […] Stupenda e misera città che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota: fino a farmi scoprire ciò che, in ognuno, era il mondo […]”.
Questi versi, che sfiorano il sublime, Pasolini poté scriverli solo in quel contesto storico-temporale (metà degli anni Cinquanta), in cui la differenza tra mondo delle borgate e mondo borghese era ancora un dato di fatto, quasi fisico, in cui il sottoproletariato “borgataro”, sebbene deportato dalle campagne meridionali, era ancora portatore di valori tipici di una civiltà contadina e pre-industriale.
Più tardi, negli anni Settanta e oltre, tale distinzione e differenza non esistevano già più; il consumismo, l’industrializzazione, la televisione avevano operato il miracolo: dopo aver eliminato le “lucciole” dalle nostre campagne, avevano trasformato i giovani italiani in una unica massa di “macchine desideranti” (definizione di Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo, pubblicato nel 1976), in consumatori di valori di scambio, in corpi omogeneizzati, omologati, uniformemente vestiti, in altri termini: “esseri privi di anima”, pronti ad uccidere in nome del denaro.