Pier Paolo Pasolini. Il cavaliere della valle solitaria, di Bernardo Bertolucci

Pier Paolo Pasolini. Il cavaliere della valle solitaria

di Bernardo Bertolucci

Da Per il cinema. Pier Paolo Pasolini, a cura di Walter Siti e Fran­co Zabagli, Mondadori, Milano 2001, e ora in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010).

Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto,
finirà non chiesto, si perderà non detto.

Non posso iniziare questo breve ricordo senza citare gli ultimi due versi della poesia intitolata A un ragazzo che Pasolini scrisse nel 1956-57. Il giovinetto ero io e le parole di Pier Paolo, rilette oggi, risuonano come un’affettuosa, ma­linconica profezia. Negli anni della nostra amicizia il signi­ficato di quei versi aveva subito varie mutazioni, accompa­gnando l’evoluzione del nostro rapporto, di cui aveva finito per diventare il cuore segreto, il logo, il motto. Due versi che, nell’affascinante e pericoloso terrain vague dell’inesprimibilità tra due amici di età diversa, venivano di volta in vol­ta bisbigliati, urlati, rinfacciati, rivendicati, manipolati, se­condo i bisogni in progress della nostra complicità. Fino a sfiorare l’inquietante scambio dei ruoli tra «il giovinetto», che vuole sapere ma non riesce a chiedere, e «il poeta», che sa ma non riesce a dire.

Tutto era cominciato poco dopo l’arrivo a Roma della mia famiglia, nei primi anni Cinquanta. Una domenica sul finire della primavera, dopo pranzo, vado ad aprire la por­ta della nostra casa in via Carini 45. C’è un giovane con gli occhiali neri, il ciuffo un po’ malandrino, il vestito scuro della festa, camicia bianca, cravatta. Con tono fermo e dol­ce mi dice che ha un appuntamento con mio padre. Qual­cosa di soave nella sua voce, e soprattutto quello che mi sembra un travestimento fin troppo domenicale mi metto­no in stato di allarme. Mio padre sta riposando, chi è lei, mi chiamo Pasolini, vado a vedere. Richiudo, lasciandolo fuori sul pianerottolo. Mio padre si sta alzando, gli racconto tut­to, lui dice di chiamarsi Pasolini ma secondo me è un ladro, l’ho chiuso fuori. Come ride mio padre! Pasolini è un bra­vissimo poeta, corri ad aprire la porta. Mostruosamente in­timidito e con le guance infuocate lo feci entrare. Lui mi guardò con una tenerezza che nessuno avrebbe mai potuto raccontare. Lui sapeva, io no, che «non c’è disegno del car­nefice che non sia suggerito dallo sguardo della vittima», come scrisse molti anni dopo. Quella notte sognai che dentro il giovane poeta si celava in realtà il cowboy in nero del Cavaliere della valle solitaria (Shane): nel sogno Pasolini e Jack Palance si fondevano in un unico teschio lucente. Sarebbero passati parecchi anni prima che io capissi che in quel momento, su quelle scale, avevo evocato e materializzato l’essenza del mito, per affi­dargli l’essenza della mia anima e del mio cuore, ciecamen­te, come può permettersi solo un quattordicenne.
Nessuno saprà mai raccontare quelli che voglio chiamare i miei momenti privilegiati. Da quando sapevo scrivere, scri­vevo poesie. Mio padre era il primo (e unico) lettore e il mio generoso e implacabile critico. Verso i sedici anni la mia produzione poetica si era andata molto impoverendo. «Ti stai arenando…» mi punzecchiava mio padre. La verità è che durante l’estate avevo girato il mio primo film, La te­leferica, dieci minuti in sedici millimetri, la giusta iniziazione per un regista sedicenne. Ma anche la prima sconvolgente scoperta che esisteva un’alternativa alla poesia, trappola or­mai vischiosa per il figlio di un poeta.
Nel 1959 la famiglia Pasolini (Pier Paolo, Susanna e Graziella Chiarcossi) si trasferisce in via Carini 45. Noi abitiamo al quinto piano, loro al primo. Ricominciai a scrivere poesie per poter bussare alla porta di Pier Paolo e fargliele leggere. Appena ne avevo scritta una scendevo le scale a grandi balzi con il foglio in mano. Lui era rapidissimo nella lettura e nel giudizio. Il tutto non durava più di cinque minuti. Quegli incontri cominciai a chiamarli dentro di me «mo­menti privilegiati». Ne uscì un mucchietto di poesie che Pier Paolo, tre anni dopo, mi incoraggiò a pubblicare. Chis­sà cosa pensò mio padre, degradato senza spiegazione a let­tore numero due.
Arriva la primavera del 1961 e Pasolini, incontrato sul portone, mi annuncia che dirigerà un film. Mi dici sempre che ti piace tanto il cinema, sarai il mio aiuto regista. Non so se sono capace, non ho mai fatto l’aiuto. Neanch’io ho mai fatto un film, tagliò corto.
Il film era Accattone, e i momenti privilegiati cominciaro­no a intensificarsi, ad accavallarsi, ad avvolgermi, dandomi un senso di vertigine. Iniziavano alle sette e mezzo del mat­tino nel garage sotto casa. Io lo aspettavo assonnato. Puntuale nel suo lieve ritardo un’ombra si muoveva tra le auto. Era Pier Paolo, con il suo sorriso doloroso e mite. Partivamo sulla Giulietta verso Torpignattara, il Mandrione, la borgata Gordiani, dall’altra parte del mondo.
Parlavamo. A volte quasi subito, oppure dopo una man­ciata di minuti, altre volte si arrivava sul set senza che nessuno dei due avesse aperto bocca, come accade in analisi. E come in analisi la mia sensazione era che le sue parole mi avrebbero rivelato segreti che nessuno avrebbe mai saputo. Spesso mi raccontava i sogni di quella notte e mi stupiva che il tema ricorrente, dietro gli schermi che lo proteggevano, fosse sovente la paura della castrazione. Io lo incitavo inge­nuamente a usare i materiali onirici nella scena che stavamo per girare quel mattino, così che nel film si sarebbero dis­seminati i residui notturni, come i sogni sono disseminati di residui diurni.
Mi accorsi che gli archi dei ponti, gli archi degli acque­dotti romani, gli archi dei tunnel, gli archi che chiudevano i vagoni dei nomadi, tutti gli archi che incontravamo sulla strada gli strappavano immancabilmente un sospiro. Da quei sospiri nacque la mia curiosità sulla sua omosessualità e sull’universo omosessuale più in generale. Mi parlava con gioia ma con qualche cautela. I miei vent’anni, fatti di ignoranza senza vergogna, erano una sfida e una minaccia, due cose che lo rendevano allegro e vitale. È così che co­nobbi le rive del Tagliamento, i suoi amici nel mite, friula­no sole, bande di ragazzi d’aria che vagavano di paese in paese, i fonemi veneti, sua madre Susanna eternamente gio­vane… un mondo naturale, squisito, quasi religioso, che usciva dalle poesie che avevo letto e riletto per rientrarvi si­mile a un vento che straziava per la troppa felicità. Momen­ti privilegiati. La Giulietta sapeva di cicche anche se non avevo mai visto Pier Paolo fumare. Ci fermavamo al bar del Pigneto e venivamo accerchiati dalla troupe ma soprattutto dai suoi amici, quelli che lo chiamavano «a Pa’».

…metta, metta, Tonino,
il cinquanta, non abbia paura
che la luce sfondi – facciamo
questo carrello contro natura!

Accattone fu un’esperienza intossicante e drammatica. Dal­la mia prima volta sul set vero di un film vero mi aspettavo di tutto, ma non di assistere alla nascita del cinema. Come si sa, Pasolini veniva dalla letteratura, dalla poesia, dalla criti­ca, dalla filologia, dalla storia dell’arte. I suoi incontri con il cinema erano stati soprattutto da scrittore: qualche bella sceneggiatura l’aveva firmata, ma era un rapporto sporadi­co, promiscuo. Diceva di amare Chaplin e la Giovanna d’Ar­co di Dreyer, visti nei primi cineclub del dopoguerra, e una volta io avevo spiato le sue lacrime nel buio alla fine dell’In­tendente Sansho (Sansho Dayù) di Mizoguchi. Ma ormai an­dava al cinema, specialmente la domenica in periferia, per pagare il biglietto ai suoi amici. Fin dal primo giorno, vidi Pier Paolo trasformarsi: di volta in volta diventava Griffith, Dovzenko, i Lumière… Il suo riferimento non era il cinema, che conosceva poco, ma, lo dichiarò tante volte, i primitivi senesi e le pale d’altare. Inchiodava la macchina da presa davanti alle facce, ai corpi, alle baracche, ai cani randagi nella luce di un sole che a me sembrava malato e a lui ricordava i fondi oro: ogni inquadratura era costruita frontalmente e fi­niva per diventare un piccolo tabernacolo della gloria sotto­proletaria. Eppure, giorno dopo giorno, girando il suo pri­mo film, Pasolini si trovò a inventare il cinema, con la furia e la naturalezza di chi, trovandosi tra le mani un nuovo stru­mento espressivo, non può non impadronirsene totalmente, annullarne la storia, dargli nuove origini, berne l’essenza co­me in un sacrificio. Io ero il suo testimone.
Uno dei miei compiti era controllare che gli attori impa­rassero i dialoghi a memoria. Gli attori erano quasi tutti dei magnaccia, papponi si diceva in romanesco, e ben presto di­ventai il loro confidente. Alcuni, misteriosamente quelli che mi parevano i cuori più teneri, proteggevano fino a tre, quattro prostitute. Le loro notti erano inquiete e finivano per farmi partecipe dell’ansia che li assaliva verso l’alba: se le ragazze arrivano a casa stanche e non trovano il sugo del­la pasta pronto e fumante quelle so’ capaci che domani me denunciano pe’ sfruttamento. Partecipe del loro dramma lasciavo che si allontanassero di nascosto dal set notturno, senza che nessuno se ne accorgesse. A parte Pier Paolo, che vedeva tutto e approvava la mia compassione.
Pier Paolo continuava la scoperta del cinema, giorno per giorno. Un mattino disse che voleva fare una carrellata. Il mio cuore batteva più veloce mentre i macchinisti lasciava­no cadere alcuni pezzi di binario sulla terra battuta di borgata, sollevando nuvolette di polvere. La carrellata doveva precedere Accattone che camminava verso una baracca, mantenendo il suo primo piano sempre alla stessa distanza. Naturalmente per me quella diventò la prima carrellata del­la storia del cinema.
Al di là di quel carrello, e sullo spazio che si apriva oltre le spalle di Accattone, sui prati accidentati e rognosi oltre le ultime baracche di Roma Sud, oltre Matera, a sud del Sud, verso Ouarzazate, Sana’a, Bhaktapur, Pasolini, una volta in­ventato il cinema, proseguì inventando la sua storia del ci­nema e su quel sentiero fu sempre più l’enigmatico cowboy in nero del Cavaliere della valle solitaria. Le sue metamorfosi non conobbero una pausa. Del cinema riuscì a vivere tutto. Passò dalla sacrale frontalità del suo stile primitivo al ma­nierismo straziato e dotto del proprio stesso linguaggio, al­le visioni atroci e sublimi di Salò.
Nei quindici anni che scivolarono veloci da Accattone alla notte del 2 novembre 1975, Pier Paolo si inventò come re­gista. Ma questo fu possibile soltanto perché era molto più che un regista l’uomo che seppe chiedere a Tonino Belli Colli il primo, miracoloso «carrello contro natura».