Pasolini nei ricordi dell’amica Silvana Mauri

In occasione del quarantunesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini (2 novembre 1975) la Fondazione Nenni  ha riproposto sul suo blog   l’intervista di Silvana Mauri rilasciata a Luigi Amicone per “Tempi” l’8 novembre 1995. Silvana,  scomparsa il 23 giugno 2006, a ottantasei anni, è stata una delle testimoni della cultura milanese del secondo Novecento, come documenta il suo libro Ritratto di una scrittrice involontaria, pubblicato da Nottetempo, a cura di Rodolfo Montuoro.
Conosce Pier Paolo Pasolini a Bologna nella primavera del 1947. Lei ha ventisette anni, lui venticinque. Dalla giacca di Pier Paolo spunta un quaderno rosso dove egli ha descritto i suoi primi amori campestri in quel Friuli dove vive relegato da alcuni anni. Ed è la curiosità di Silvana per quel triangolo rosso che provoca i primi segnali di un disagio crescente. Emozionata e ansiosa per un’intimità che non sembra avverarsi, Silvana avverte come elemento antagonista la «fanciullesca freddezza» di Pier Paolo. Svelato il contenuto del quaderno rosso e compiuto il sacrificio della confessione,  la loro amicizia resterà sospesa come se sono state dette troppe cose oppure troppo poche.  Silvana fu spesso definita come l’unica donna che Pier Paolo Pasolini avrebbe potuto amare. Lo scrisse peraltro lui stesso.

Quarantuno anni fa morì Pier Paolo Pasolini: le parole di Silvana Mauri
di Luigi Amicone* [“Tempi”, 8 novembre 1995]

https://fondazionenenni.wordpress.com – 2 novembre 2016

Silvana Mauri, 76 anni, moglie dello scrittore Ottiero Ottieri, vive appartata dal caos metropolitano in una viuzza che sta fra San Babila e i bastioni di Porta Venezia, tra le pieghe della Milano per bene, in uno di quei palazzi ottocenteschi che sembrano malinconicamente ancorati a un tempo, quello della laboriosa e discreta borghesia lombarda, che forse non esiste più. Romana di nascita ma milanese d’adozione, Silvana Mauri è la donna che ha condiviso con Pier Paolo Pasolini gli affetti più intimi, le confidenze più segrete.
Per questo non ha mai voluto calcare le scene della pubblicistica pasoliniana, e, fedele alla consegna che si è data, è rimasta in tutta riservatezza defilata e schiva dai dibattiti e dalle celebrazioni del poeta di Casarsa. In oltre cinquant’anni di attività, quarant’anni dei quali passati alla Bompiani, pur lavorando e continuando a lavorare nell’editoria, Silvana non si è mai fatta coinvolgere in quella che lei chiama la «furia biografica» che ha travolto la figura di Pasolini. Per questo la nostra conversazione ci sembra un puro miracolo e noi ci ritiriamo volentieri dalla scena, lasciando parlare lei, Silvana Mauri, negli appunti raccolti in un dialogo durante una piovosa domenica mattina d’autunno.

Silvana Mauri, Laura Betti e Pasolini
Silvana Mauri, Laura Betti e Pasolini

Piccolo Gesù di paese
«Conobbi Pier Paolo Pasolini a Bologna, città dove la mia e sua famiglia si erano stabilite provvisoriamente. Mi venne in casa un giorno con mio fratello Fabio. Si erano conosciuti nella redazione di un giornale giovanile, “Il Setaccio”. Avevamo vent’anni. I moderni non possono capire ciò che ci ha uniti. Fu una passione unica, irripetibile. La mentalità moderna non può immaginarle certe cose, la passione gratuita per cui tra un uomo e una donna non ci sia immediatamente il sesso. E invece è andata proprio così fra me e Pier Paolo. Mi capisce? Non so se mi capisce davvero … E comunque: da quel giorno in casa a Bologna, poi non ci siamo mai più persi di vista. Ci siamo seguiti, anche a distanza, con la stessa tenerezza e dolcezza di quei vent’anni a Bologna e a Casarsa.
[…] Ci siamo voluti bene, sempre. Era una specie di ingordigia del reale quello che ci univa. Una dolcezza che si nutriva della gioia di vedere le cose insieme. L’ho anche scritto da qualche parte: l’ingordigia di accumulare assieme il reale, culture, creature, nature, è stato il punto più alto e specifico del nostro incontro.
[…] Per me che ero una borghese, anzi borghesissima, cittadina, metropolitana, mi si aprì con lui il mondo creaturale, contadino. Ricordo che una volta lo andai a trovare facendo dodici ore di treno. Ringrazio ancora mio padre pensando alla sua grande liberalità. Stetti un mese a Versuta, passammo giornate intere per i campi, nei bagni al Tagliamento, delle serate intere a ballare. Dormivo con lui, nella stessa e unica stanza di quella casa di contadini della Pivetta [Ernesta Bazzana, ndr.].
[…] Nelle sera d’inverno scendevamo a riscaldarci nel fienile, a raccontarci storie con i piedi infilati sotto le mucche. Pier Paolo sembrava il piccolo Gesù del paese, affascinava e trascinava dietro di sé tutti, ragazzi e ragazze».

Il mio segreto
«Della sua omosessualità non sapevo nulla, né intuii mai nulla finché non fu lui stesso a rivelarmela. Portava sempre con sé, infilato in una tasca della giacca, un quadernetto rosso. Mi diceva: “Adesso te lo leggo”. Poi ci ripensava: “No, sei troppo piccola per capire …”. Poi seppi che quello era il famoso diario dove andava rivelando, timidamente, con pudore, la sua omosessualità. Che io scoprii nel ’50, a causa di un fatto singolare. Mio fratello Fabio era caduto in una profonda crisi mistica, oltre i limiti dell’equilibrio. Ricordo che eravamo in vacanza a Macugnaga. Fabio uscì e non rientrò la notte. Iniziammo a cercarlo in montagna. Il paese si mobilitò. Lo ritrovammo miracolosamente nascosto nell’antro di una grotta, digiuno, coperto di muschio, a duemila metri.
[…] Fabio voleva fare il santo eremita, separarsi dal mondo. Lo portammo a casa e quella sera ci sentimmo vicini come mai. Salutandoci ci abbracciammo – lui lo avvertì, ma io francamente non me ne accorsi subito – con un calore particolare. Fu allora che mi scrisse quella lettera: “Non posso più nasconderti il mio segreto”. Per me non cambiava niente. Solo mi addolorava che si infilasse in un destino che presentivo di grande sofferenza.
[…] Lui comunque non avrebbe mai aderito ad un’Arcigay, come mi scrisse. La sua diversità la sentì sempre come una ferita, come un nemico. Gli fui vicino anche a Roma, dopo quella fuga nottetempo da Casarsa».

«Tu parli, io registro»
«Pier Paolo mi rimproverava di non scrivere. Su questo punto ha sempre insistito, anche quando poi mi sono sposata e avevo avuto dei figli. Gli dicevo: “Pier Paolo, non si può fare tutto nella vita. Ognuno ha la sua strada, la mia è il lavoro, il marito, la famiglia. Non ho tempo per scrivere libri”. Ma lui ha sempre insistito. Mi diceva: “Un giorno ti metto il microfono al collo, tu parli e io ti registro”.
[…]  In questa vicenda che Pier Paolo mi voleva scrittrice c’è perfino un mistero. Un giorno mi ha detto: “Se tu non scrivi, pubblico le tue lettere”. E sono centinaia. Perché al mio “Tarchetto” – così chiamavo Pier Paolo – scrivevo tutti i giorni, al mattino, prima di iniziare il lavoro in ufficio. Lei capisce: ho lavorato, per quarant’anni, in Bompiani. Bene: quelle lettere non si sono mai trovate».

Nico Naldini e Pasolini nel 1947
Nico Naldini e Pier Paolo Pasolini nel 1947 in Friuli

Il giorno, la notte, la morte
«Roma? Una libertà dal Friuli. Sospetto che per lui significasse essere fuggito da una patria profonda, avvolgente, ma che anche lo imprigionava. Non avrebbe mai lasciato il Friuli. Le circostanze lo hanno scaraventato in un altro mondo. Stava a Rebibbia che allora era un caotico e informe suburbano. Non era ancora la Roma delle colate di cemento. Era la Roma delle catapecchie e degli acquedotti imperiali. Andavo a trovarlo, ma non è che allora ci fossero indicazioni di vie. Niente, era la bidonville del sottoproletariato.
[…] Ricordo che i primi anni della Capitale furono durissimi per lui. Come maestro era stato cacciato da tutte le scuole del regno. Insegnava allora in una scuola privata, di preti. Pensi che andava tutte le mattine, da Rebibbia a Montemammolo. E intanto scriveva, scriveva come un forsennato.
[…] Ragazzi di vita lo fece conoscere al grande pubblico. Poi Pier Paolo scopre il cinema e sfonda con Accattone. Il suo atteggiamento nei confronti del successo era ambivalente: ci teneva e, insieme, lo detestava. La sua vera passione non era il cinema, era la scrittura.
[…] Ricordo la sua prima casa nel quartiere di Monteverde, accanto a quella di Gadda, che Pier Paolo stimava molto, ma con cui non ebbe molti rapporti perché lo scrittore lombardo era molto schivo. La vita di Pier Paolo era organizzata alla perfezione, la sua giornata simile a quella di un impiegato. Poiché solitamente si ritirava tardi, verso le due, tre di notte, si svegliava verso le nove del mattino e lavorava fino alle sei, sei e mezza del pomeriggio, interrompendo solo per il ricco pranzo che gli preparava quella buona cuoca di sua madre. Pier Paolo mangiava con lo stesso entusiasmo del contadino che torna dal campo dopo una giornata di duro lavoro. Mangiava per fame, come un ragazzo sanissimo, fisicamente e psichicamente. E infatti non beveva, non fumava, giocava spesso a calcio. Era forte come un toro. (Per questo sono tra l’altro persuasa che il suo assassino Pelosi non poteva essere solo…).
[…] La sera poi, verso le sette, si faceva vivo con Moravia, che lo aveva preso con sé quasi come un figlio, Elsa Morante, Sergio Citti, Laura Betti, Dacia Maraini, mio fratello Fabio. Era questa la cerchia degli amici più stretti. Uscivano a cena, oppure mangiavano a casa di Moravia e della Betti. Ogni sera però, a mezzanotte, come Cenerentola, ci fosse pure il Re del Portogallo, Pier Paolo salutava garbatamente gli amici e scompariva. È quella la china che lo condusse giù all’inferno fino a Petrolio.
[…] Comunque la sua era una vita di una regolarità e disciplina esemplari. Non ha mai messo piede in un salotto romano. Sono però certa che non era contento di quella sua vita notturna. Negli anni di Pier Paolo a Roma, ho colto in lui come una progressiva tristezza e una profonda delusione delle sue notti. L’ho visto un mese prima di morire, con una ferita al petto e un braccio fasciato. Sapeva che ormai le frequentazioni erano diventate minacciose, sperimentava un’escalation di violenza su di lui.
[…] Questa era l’origine della tristezza: la sua era diventata una delusione umana, quei ragazzi che aveva amato e aiutato erano diventati dei mascalzoni. Non credo al complotto politico, ma è stato un gruppo a ucciderlo».

*INTERVISTA rilasciata a Luigi Amicone per “Tempi”  l’8 novembre 1995 da Silvana Mauri

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