Pasolini in dialogo con Gramsci, di Luca Peloso

Pasolini in dialogo con Gramsci

di Luca Peloso, giugno 2012

In un’intervista a Jon Halliday [1], Pasolini afferma che Gramsci è stato l’autore più importante per lui, che le sue idee sono state le stesse dell’autore dei Quaderni, mentre Marx è stato un autore più “distante”. Ma che cosa accomuna i due, al di là della loro collocazione nell’ambito di un marxismo non ortodosso legato ad una fase precisa dell’elaborazione di Marx (non il Marx de Il Capitale, ma il Marx del Manifesto, della Critica dell’economia politica e delle Tesi su Feuerbach)? Dove e come Pasolini si smarca da Gramsci, pur servendosi di molti strumenti concettuali attinti dalla sua opera? La modalità con cui i problemi vengono affrontati, i percorsi d’indagine sono sostanzialmente affini oppure no?
Se si considera il dialogo che Pasolini viene instaurando col suo padre putativo nel corso degli anni, è possibile isolare alcuni nuclei tematici fondamentali, che di quel dialogo tracciano i confini. Ne abbiamo individuati tre particolarmente significativi: la linguistica, l’umanesimo e la religione.
La linguistica è fondamentale in quanto consente a Gramsci di mettere a frutto gli studi intrapresi sotto la supervisione del maestro Bartoli; confrontarsi con la lingua storico-naturale implica, in lui, una prosecuzione delle acquisizioni maturate in passato e il loro rilancio nell’alveo della teoria marxista. Pasolini al contrario si confronta con le scienze linguistiche da autodidatta, sulla scia di letture condotte in proprio sulla spinta di una vorace sete di conoscenza e di un’ispirazione inesauribile: la sua è un’incursione libera all’insegna della contaminazione, di quel pastiche che è anche la cifra del suo cinema e della sua scrittura. Egli mescola suggestioni, spunti provenienti dai campi del sapere più disparati quali la psicanalisi, l’antropologia, l’etnologia, lo strutturalismo e li sottopone regolarmente all’attenzione degli specialisti come ipotesi di lavoro, in vista di una cooperazione che prescinda dalle rigide divisioni disciplinari. A differenza di Gramsci, non opera da linguista nel quadro delimitato di una scienza di cui conosce le pratiche; opera da scrittore per i linguisti, preoccupandosi di porre domande e avanzare proposte, più che di partecipare alla creazione di concetti o sistemi di pensiero: domande e proposte che saranno poi altri, eventualmente, a raccogliere. Tale “metodo” si afferma anche laddove mutano gli scenari epistemologici, nel prosieguo di un dialogo sempre più articolato con Gramsci.
L’umanesimo è un nodo altrettanto rilevante: sia il marxismo di Gramsci che quello di Pasolini sono infatti incomprensibili senza il riferimento all’umanesimo: ma mentre Gramsci ripercorre la riflessione sull’uomo nel solco tracciato dalla filosofia moderna, Pasolini è radicalmente antimoderno. Mentre Gramsci si colloca sulla scia del quesito kantiano “che cos’è l’uomo?” (domanda eidetica), riproponendolo alla luce della dottrina marxista, Pasolini sembra invece presupporre l’essenza umana: dà per scontato, cioè, che non vi sia bisogno di dire “cosa l’uomo è”, ma basti indicarlo – e ciò a posteriori, nel momento in cui non è più. Lo scenario in cui opera non è lo stesso di Gramsci: il neocapitalismo ha preso piede, la società dei consumi è l’unica realtà; in questo contesto l’uomo così come lo si è conosciuto, stando a Pasolini è solo un vago ricordo. Laddove Gramsci cerca di rispondere ad una domanda eterna ed universale, Pasolini si sforza di far comprendere le ragioni per cui la stessa domanda non ha più ragione di essere e, sulla base della cosiddetta “mutazione antropologica”, dà vita ad una contrapposizione frontale tra consumismo e umanesimo pre-industriale; egli opera “per sottrazione”, affermando valori irrimediabilmente perduti proprio mentre ne attesta la scomparsa, e facendone scaturire un’opposizione incondizionata al modello-sistema che tale nuova società presiede, opposizione che a sua volta va ricondotta ad un’istanza prettamente teorica, la critica, che in Pasolini si fa gesto. Anche qui, pur nella comunanza d’intenti e nell’attenzione ad un “uomo” che rimane ricettacolo di una dignità su cui entrambi convengono, il metodo e gli esiti dell’indagine non potrebbero essere più diversi.
Ma in che senso “diversi”? Davvero le loro posizioni sono radicalmente inconciliabili? In realtà il concetto di educazione come egemonia, Pasolini lo prende di peso da Gramsci. L’impostazione per cui gli intellettuali hanno fondamentale ruolo di mediatori e guide, non lascia adito a dubbi. L’affrancamento si consuma, semmai, nella necessità di rendere complementari modelli formativi diversi. Gramsci infatti avverte ancora l’esigenza di integrare formazione umanistica e moderna formazione meccanica di tipo americano; Pasolini opta univocamente per un solo modello, ispirandosi agli antichi valori della tradizione umanistica.
Ma se la componente erotica nel rapporto maestro-allievo non è accidentale e risale proprio a Gramsci [2], quello pasoliniano è un eros che si fa conoscenza. Un eros sublimato, attraverso l’afflato conoscitivo, in agape. Concetto che ci rimanda alla presenza del cristianesimo nel suo pensiero, secondo modalità questa volta davvero altre rispetto al marxismo di Gramsci. Il rapporto con la religione, infatti, nel primo assume le forme di una critica condotta con l’ausilio di categorie marxiane, mentre nel secondo diventa razionalizzazione/ripensamento di un’ esperienza intima, emotiva, sentimentale; del vissuto interiore – il che non potrebbe risultare più distante dalle premesse “canoniche” di una riflessione filosofica.
Gramsci si accosta alla religione senza minimamente considerare il suo lato esistenziale e poetico (approccio diametralmente opposto a quello pasoliniano); senza affrontare il dramma della coscienza religiosa, le sue lacerazioni, il percorso che punta a riscattarla dalla miseria dell’esistenza umana. Non considera la religione per quel che almeno in parte è, un formidabile rimedio contro l’angoscia, la sofferenza, la morte. Non sembra interessato, come Pasolini, al fatto che vi possa essere religiosità autentica e religione inautentica. Si pone sulle orme di Marx, prefiggendosi di superare l’orizzonte religioso mediante la critica, in nome di una concezione dell’uomo come processo (il cui corollario immediato è l’inesistenza della “natura umana”).
Ma è sufficiente questo a sradicare definitivamente la religione dalle coscienze e dalla filosofia, la quale per millenni, da San Paolo ad Agostino, da Tommaso a Florenskij se ne è nutrita? E nel caso dovesse sopravvivere, sarebbe concepibile una religione senza alcuna pretesa veritativa sulla natura dell’uomo? Rinunciare a questa “pretesa”, a questa “fede”, sarebbe per ciò stesso inscriversi nello storicismo e votarsi all’immanenza, o abbracciare un cristianesimo secolarizzato? Depositare ogni Irrinunciabile (cioè rendere relativo l’ Assoluto) è davvero tradire il cristianesimo e la sua parola sull’uomo, togliere cioè la speranza su cui la fede riposa? E un cristianesimo senza speranza è concepibile?
A quest’ultima domanda Pasolini risponde affermativamente. Non solo è possibile un cristianesimo senza speranza, ma è necessario prescindere dalla speranza perché religione si dia. Anche Pasolini, come Gramsci, prende in considerazione il lato istituzionale della religione, ma insieme a questo coltiva anche un certo interesse per alcune questioni squisitamente filosofico- teologiche (pur a suo modo, cioè con scarso rigore filologico). Come si è detto poco sopra, la concezione pasoliniana del cristianesimo muove dalla nozione di eros come agape. Pasolini dunque non assume la religiosità come un dato per analizzarne le forme, la diffusione e i contenuti: ne fa una questione di autenticità umana, considera il fenomeno religioso uno dei grandi bacini della spiritualità dell’Occidente; esso costituisce ai suoi occhi un problema su cui soffermarsi nella misura in cui testimonia di una civiltà integra, le cui vestigia rinviano a un universo antropologico perduto.
Passiamo ora ai raccordi tra linguistica, umanesimo e religione al fine di conferire loro l’organicità e la coerenza che abbiamo postulato. Per quanto riguarda gli ultimi due termini, il nesso è evidente e diretto. Che il marxismo sia un umanesimo, lo si desume dal rifiuto della schiavizzazione e dell’asservimento nei confronti di ogni padrone. Il concetto di libertà, che Marx riprende da Hegel e dai grandi filosofi moderni, nel marxismo è capitale. Se l’uomo viene privato della sua libertà e reso alienato, la storia dell’uomo diventa, agli occhi del marxista, un processo di liberazione, dunque di umanizzazione. Si dirà: se il marxismo sceglie l’uomo, la religione – che subordina l’uomo a Dio – non sarà una forma di alienazione? Gramsci fa propria la prospettiva sottesa a questa domanda: Pasolini viceversa insiste sul carattere profondamente religioso di ogni slancio con cui il marxismo si volge agli sfruttati. Le due concezioni, di per sé molto distanti, s’incontrano nella valorizzazione di un cristianesimo autentico (che Gramsci individua nel cristianesimo primitivo e Pasolini ravvisa nella religiosità contadina). L’obiettivo di Gramsci tuttavia è diffondere i contenuti della filosofia marxista tra le masse. Pasolini invece ricerca il senso della religione in quel che essa ha di antitetico rispetto alla modernità, cioè la componente spirituale “ingenua”, quella soppiantata dalle certezze legate all’azione rischiarante della ragione illuminista. L’unica forma di alienazione religiosa rimane per lui l’adesione cieca al dogma nel contesto dell’asservimento al modello consumistico. Insomma, della religione Gramsci ha una concezione moderna perché intende circoscriverla, Pasolini antimoderna in quanto intende rievocarla (e qui Hegel, filosofo caro al primo ma non al secondo, avrebbe buon gioco nel demistificare, come già con Schleiermacher [3], il sentimento che si annida nel suo attaccamento viscerale a una religione senza concetto). Pasolini, come i filosofi rinascimentali, vede nell’uomo il centro di tutto: ogni “conflitto” che intenda riscattarlo deve anteporre il singolo alla classe cui appartiene.
Ma quale liberazione può darsi se l’uomo è divenuto un automa e le classi sono state spazzate via dall’unica ideologia imperante, il consumismo? Qui Pasolini pone l’accento sul valore pratico dell’atto critico individuale: nel contesto della nuova società, infatti, il pensiero può – deve – esercitare una critica sistematica anche nei confronti del decadimento della religione. Se colui che pensa conserva l’umanità in un mondo disumano, abbruttito, irriconoscibile, la riscoperta della vera religiosità può allora coincidere col ritrovamento di un umanesimo reale.
La linguistica è un ambito che mette in prospettiva e in qualche modo ingloba gli altri due, orientandone i contenuti particolari. Attraverso il confronto con le scienze linguistiche, infatti, sia Gramsci che Pasolini ci restituiscono definizioni particolari e personali – anche se non sempre circostanziate – della filosofia. In Gramsci la filosofia è una concezione del mondo da svincolare dagli studi specialistici, affinché ognuno possa attingere, nel pensatore che è in lui (tutti gli uomini sono filosofi, si legge nei Quaderni), i prodromi di una nuova consapevolezza, di una nuova cultura, in una parola di una nuova umanità. Il filosofo o è educatore, o non è; il suo compito è guidare, esortare. Gramsci riconduce la sua ricerca linguistica a un progetto politico; Pasolini compie un passo ulteriore, nel senso che abbozza, non senza forzature, un progetto di linguistica marxista vera e propria, in cui la lingua e i linguaggi sono risultati di rapporti di forza che agiscono come cause, quasi meccanicamente (mentre Gramsci al contrario rifiuta ogni forma di causalità meccanica); da qui il suo “realismo”, di cui si sente traccia anche in altri ambiti (si pensi al suo anti-nominalismo cinematografico).
Si fa urgente, in Pasolini, la riflessione sulla lingua come indicatore di un universo-mondo che si va modificando e che chiede all’intellettuale di prendere posizione proprio nel momento in cui vecchie categorie come “impegno” entrano in crisi, in cui l’unico vero legislatore è il mercato cioè l’industria. Occuparsi di linguistica significa dunque, infine, occuparsi della crisi degli assetti culturali tradizionali, che d’un tratto si rivelano inadeguati ad una piena comprensione del reale: significa attestare un sempre maggiore ampliamento della conoscenza, una parcellizzazione sempre maggiore delle discipline, la nascita di nuovi campi del sapere; e cercare di farvi fronte. Anche qui i punti di contatto tra i due autori non mancano: Pasolini in questo senso è davvero “l’ultimo gramsciano”. Con lui se ne va la figura dell’intellettuale eclettico, di cui Gramsci è l’emblema, in grado di cimentarsi con le discipline le più diverse, di dominare il dibattito pubblico muovendosi con naturalezza da un campo del sapere all’altro proprio mentre viene posto di fronte all’improbabilità di percorrerli senza arrancare; proprio mentre la cultura umanistica si rivela sempre più affannata e incapace di sostenere la sfida del progresso scientifico. Con Gramsci e Pasolini se ne va la figura dell’intellettuale in grado d’indicare nuove strade per il futuro (“ogni scienza è profetica”, si afferma nelle Lettere luterane). La linguistica, infine, rappresenta il punto d’irradiazione delle rispettive poetiche, una sorta di “grado zero del pensiero” in grado di rendere conto dei circuiti semantici che esse instaurano, delle isotopie e delle connessioni, della ricerca di un’unità della scrittura che è anche coerenza speculativa.
“La filosofia è un ordine intellettuale”, afferma Gramsci. A quale riscontro dà luogo un simile lessico dagli echi spinoziani? [4] Come trova conferma nel concreto dispiegarsi dei suoi atti di pensiero? Egli distingue nettamente la filosofia dalla religione e dal buon senso, poiché se anche queste ultime sono concezioni del mondo, come lo è la lingua storico-naturale, la filosofia – a differenza di queste – non è disgregata; la filosofia ha la sua radice nell’intelletto, non nella coscienza (deve, semmai, ripercuotersi su di essa). Va detto però che la filosofia in senso stretto secondo Gramsci non esiste. Esistono le filosofie [5]. Tra queste si effettua, che lo si voglia o meno, una scelta: tutti gli uomini sono filosofi in virtù di una concezione del mondo che li abita. Ma proprio a partire dalla scelta, afferma Gramsci, una filosofia ha più valore delle altre: il suo statuto qualifica le ragioni della sua assunzione e quindi della sua diffusione tra le classi. Questa filosofia, per Gramsci, è la filosofia di Marx. Gramsci è pensatore in quanto è marxista. Certo, per lui – come del resto per Hegel [6] – la filosofia non si riduce alla storia della filosofia o alla filosofia delle accademie: tuttavia il criterio per cui il pensiero deve sfuggire agli “imbalsamatori d’idee” lo mutua da Marx, secondo il quale è necessario andar oltre l’interpretazione, per il cambiamento. Il pensiero deve rivoluzionare le menti ma anche le società. Quella di Gramsci, dunque, è una filosofia della rivoluzione. Ma che tipo di forma mentis è all’opera nei Quaderni?
Gramsci riflette sugli oggetti più disparati a partire da una galassia di concetti e nozioni pregresse che s’innescano come reagenti rispetto alla materia che li convoca. La filosofia, in Gramsci, è un ordine che innesca dispositivi con la funzione di ordinare e strutturare il magma del reale. Il che non significa, beninteso, che Gramsci proceda meccanicamente per categorie: piuttosto, che la soggettività diventa “creativa” in vista dell’integrazione dei suddetti dispositivi in un orizzonte diverso da quello in cui sono stati concepiti.
Anche laddove Gramsci inventa concetti, come nel caso dell’egemonia, rimane nell’ambito della teoria marxista, pur rinnovandola profondamente. Lo abbiamo visto con gli studi linguistici, che egli rilancia nell’ampio progetto di una lotta culturale; nel proposito di “riformulare il concetto di uomo”, derivante non dall’esigenza di “aggiornare” il verbo di Marx, bensì di ricalibrare il pensiero all’altezza di nuovi equilibri geopolitici (le nazioni dopo la prima guerra mondiale), sociali (il sistema fordista-taylorista), di nuove correnti culturali (la psicanalisi, che Gramsci chiama “freudismo”): elementi presenti nell’orizzonte delle sue riflessioni, anche quando non vengono esplicitamente chiamati in causa.
La concezione dell’effettuale rimane, abbiamo detto, quella di Marx. La trattazione della religione ne è l’ennesima conferma: essa viene infatti letta alla luce di Marx, Engels e Lenin; la ragione per cui essa viene sottoposta al vaglio di un esame sistematico è a causa della peculiarità del caso italiano (presenza ingombrante delle istituzioni e delle associazioni religiose); allora appare sì “problema”, ma – di nuovo – in quanto ostacolo alla lotta culturale che il proletariato ha il compito di condurre. La filosofia in Gramsci, infine, agisce come riproposizione di alcuni temi tipici della filosofia moderna.
Viceversa non esiste mentalità ordinatrice in Pasolini. L’unico dispositivo ascrivibile alla sua riflessione è rintracciabile in quel “nuovo fascismo” che ritorna ossessivamente negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane, con la funzione di spiegare gli stravolgimenti epocali e i mutamenti strutturali della società italiana. Eppure anch’esso si stempera in una miriade di puntualizzazioni particolari che non possono essere ricondotte ad una pura e semplice deduzione da quel modello, che pure conferisce loro unità. Con Pasolini prende forma una concezione del pensiero come critica serrata e sistematica in cui la negazione, anziché essere “semplicemente” una tappa ineludibile [7], diviene fondamento, senza per questo essere riconducibile all’uso che lo scetticismo ne fa (da lui definito formalistico ed astratto). L’istanza critica pasoliniana è un atteggiamento che mette in discussione l’ovvio, il luogo comune: un topos del filosofare, che egli tuttavia innalza al rango di testimonianza di integrità. La definizione pasoliniana di autore come “contestazione vivente”, la cui parresìa provoca sempre scandalo, va intesa in tal senso.
Con Pasolini il pensiero si fa gesto in quanto il corpo si affianca alla forza persuasiva delle parole; momento fondante di tale binomio è il rifiuto [8], colui che pensa è anzitutto colui che dice no. Il pensiero secondo Pasolini, per essere, dev’essere non conforme. Pasolini, con Horkheimer e contro Gramsci, non vede all’opera nel pensiero critico un programma d’azione né uno strumento, ma un atteggiamento in grado di prevedere, di anticipare linee di tendenza; tuttavia ciò che la filosofia può anticipare non è “il cammino del progresso”, bensì l’inesistenza di ogni consolazione futura, laddove si assiste al trionfo incontrastato della scienza e della tecnica. Non sussiste dunque la possibilità di contemplare la “reazione d’orrore e la volontà di resistere” [9]: solo in quanto “sforzo consapevole di fondere ciò che sappiamo per esperienza o intuizione in struttura linguistica”[10], la filosofia può essere tale e rendersi incisiva; ma non per fungere da correttivo alla storia, che ha imboccato un corso non più emendabile; bensì per il puro e semplice dovere etico ed estetico della denuncia. Con le parole di Horkheimer, “alla filosofia non interessa dare ordini” [11]; “non esistono formule in filosofia” [12], ma solo descrizioni adeguate. Quale altra istanza se non quella descrittiva rappresenta infatti, nel percorso pasoliniano, la furia con cui egli decritta i nuovi fenomeni sociali, con cui insegue un modus vivendi “umanistico” proprio mentre ne attesta l’impossibilità, con cui rimpiange nostalgicamente una religiosità che non è più, e che solo nel momento in cui non è, reclama un pensiero critico?
Con Gramsci il filosofo risponde ai dettami della pianificazione industriale che rende pre-ordinata l’esistenza, con un programma d’idee; con Pasolini il pensiero altro non si risolve, infine, nell’atteggiamento di ribellione che lo convoca. In un urlo di dolore. Nel grido. Lo stesso fenomeno primordiale a cui, in sede linguistica, riconduce ogni forma d’espressione dell’esistenza e che nella critica sistematica ad ogni stato di cose, ad ogni convenzione prestabilita, diviene il marchio riconoscibile della “disperata vitalità” che rappresenta, ai suoi occhi, l’ultimo succedaneo della dignità umana.


NOTE
[1] Pasolini 2009
[2] Cfr. Siciliano 2005: 128-131.
[3] Hegel 2004: 55.
[4] Sul rapporto Gramsci-Spinoza cfr. Bordoli 2003.
[5] Cfr. a questo proposito la posizione non dissimile di Sartre, in Sartre 1960.
[6] Cfr. Hegel 2009.
[7] Cfr. Horkheimer 2000: 140-160, in cui la negazione viene definita elemento del pensiero, momento fondativo “a due tagli”: negazione dell’ideologia dominante, negazione delle pretese impudenti della realtà.
[8] Indicativa a questo proposito la tesi dello storico Silvio Lanaro, secondo cui gli unici intellettuali a non trincerarsi in un’aristocratica estraneità di contro agli sconquassi della contemporaneità, o ad accettarne supinamente le conseguenze, sono Sciascia, Calvino e per l’appunto Pasolini. (cfr. Lanaro 2005: 318).
[9] Horkheimer 2000: 142.
[10] Ibid. 154.
[11] Ivi. 158.
[12] Ivi. 143.

BIBLIOGRAFIA
BORDOLI R., Vitae meditatio. Gramsci e Spinoza a confronto, QuattroVenti, Urbino 1990
GOLINO E., Pasolini. Il sogno di una cosa. Pedagogia Eros Letteratura, Bompiani, Milano 2005
GRAMSCI A., Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 2007
HEGEL G. F. W., Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2004
HEGEL G. F. W., Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2009
HORKHEIMER M., Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 2000
LANARO S., Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2005
PASOLINI P.P., Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 2009
SARTRE J.-P., Critique de la raison dialectique, Gallimard, Paris 1960
SICILIANO E., Vita di Pasolini, Mondadori, Milano 2005