Pasolini e la giustizia. Il “caso” Pilade, di Angela Felice

La fortuna sempre viva della drammaturgia di Pasolini, oggetto di continue riletture sceniche, riguarda anche la tragedia Pilade.  L’autore vi traccia una sorta di quarto tempo dell’Orestea di Eschilo e vi prefigura le potenziali derive autoritarie del sistema democratico.  Sul testo un’analisi  di Angela Felice, già apparsa nel numero 30, mese di luglio, della rivista online “Diari di Cineclub” (http://www.cineclubromafedic.it)

Il “caso” Pilade
di Angela Felice

E’ noto che Pasolini subì in vita una vera odissea giudiziaria, che lo portò sul banco degli imputati in ben 33 processi e sotto i più diversi capi d’accusa, dai quali peraltro uscì sempre assolto: da quelli collegati alla sua biografia, a partire dal primo, celebrato nel 1952 a Pordenone per il cosiddetto scandalo di Ramuscello, a quelli conseguenti al suo operato artistico, di volta in volta chiamato alla sbarra come espressione recidiva di vilipendio.
Può dunque suonare strano che una così accanita e sofferta persecuzione processuale non trovi eco esplicita nell’opera pasoliniana e non si traduca in tema centrale di qualcuna delle sue multiformi manifestazioni, letterarie o cinematografiche. Il paradosso, tuttavia, è solo apparente, né certo va ricondotto alla reticenza pubblica dell’autore sugli incidenti della propria cronaca personale, ove si pensi al persistente autobiografismo, anche narcisistico, che ne fa lievitare l’ispirazione e il pensiero.
E’ vero invece che, in particolare dagli anni Sessanta, a Pasolini preme soprattutto il discorso sul potere, tanto nel suo essere paradigma ontologico e necessario della vita sociale organizzata, quanto nelle forme diverse che esso assume nella fenomenologia storica, inclusa la configurazione democratica dell’Italia post-fascista. Ed è  in questo orizzonte di evidente spessore politologico che Pasolini colloca la sua sporadica riflessione sui meccanismi della giustizia umana, sottraendoli ad una lettura di tipo settoriale e interpretandoli invece come corollari, conseguenze e specchi della gestione complessiva della polis, di cui replicano per automatismo  lo stato di salute, compresa l’eventuale degenerazione autoritaria.
Riflesso chiaro di questa problematica, e per molti versi un unicum nel corpus pasoliniano, è Pilade, una delle sei tragedie in versi stese tra il 1966 e il 1967. Pasolini vi completa idealmente la trilogia eschilea dell’Orestiade con un quarto tempo immaginario, in cui viene rappresentata l’evoluzione politica della città di Argo dopo il passaggio dalla tirannide alla democrazia, l’assoluzione di Oreste dalla colpa di matricidio, con verdetto legalmente sancito, e la sua conseguente assunzione a leader politico della comunità, liberamente eletto dall’assemblea. Il mito, così prolungato e inventato, si presta dunque  esemplarmente a diventare  maschera allusiva della vicenda pubblica italiana coeva all’autore, nel contesto degli anni Sessanta segnati dall’euforia del boom e, in politica, dalle prospettive riformatrici di inediti governi di centro-sinistra.
Le intenzioni di questo voluto strabismo temporale, con conseguente forzatura attualizzante,  si dichiarano peraltro fin dal quadro iniziale del dramma. Lì infatti la lugubre immagine dei cadaveri di Egisto e Clitemnestra, figure dell’”antico regime” ora penzolanti in piazza, racchiude l’evidente controfigura di altri impiccati più recenti, Mussolini e Claretta Petacci, simboli  di una dittatura sconfitta da cui, con la conquista della libertà democratica, l’Italia del dopoguerra si era o pareva riscattata.

"Pilade". Regia di Antonio Latella (2004)
“Pilade”. Regia di Antonio Latella (2004)

Ma con quali sviluppi successivi? E con quali prospettive future?
Intanto, nel Pilade pasoliniano, la volontà dell’attualizzazione e la sottintesa tensione a interrogare, capire o denunciare  il presente comportano radicali modifiche nella fisionomia tradizionale dei personaggi del mito,  in particolare per Atena, emblema della ragione umana chiarificatrice, e per i giovani Pilade e Oreste, convenzionalmente uniti da una fraterna amicizia.
La dea, innanzitutto, di per sé ispiratrice positiva di bene, si rovescia qui in ambigua fonte negativa di dogmatismo e fanatismo. E’ l’effetto inevitabile di una Ragione stravolta, perché assolutizzata e ciecamente “illuministica”, impegnata a portare i suoi lumi ovunque, anche dentro la “luce oscura” del passato e della tradizione, che a lei, nata solo dal padre, sono sconosciuti. Tutta “moderna”, radicata nel presente ed esaltata dalle prospettive di progresso del futuro, questa Atena condensa in sé i disvalori che Pasolini vede incombere sulla imborghesita e normalizzata società italiana del suo tempo, avviata sulla china della secolarizzazione materialistica, dell’alienante edonismo consumistico e della perdita di realtà conseguente all’oblio del passato, la sola dimensione della vita –scrive – “che noi veramente conosciamo e amiamo”.
Il nuovo potere democratico nasce dunque su basi monche e sostanzialmente tarate dall’ingiustizia, se la stessa assoluzione di Oreste nell’Areopago  è stata imposta da una divinità miope, più che essere frutto della libera scelta, per quanto arbitraria, del tribunale umano. E su quelle fondamenta il nuovo governo non può che scivolare in dispositivo di sopruso e di potere arrogante, formalmente democratico ma nella sostanza totalitario.
Come per un teorema teatrale, questa deriva  è dimostrata dal caso esemplare di Oreste, che è sottoposto da Pasolini a una forte revisione in chiave negativa. L’eroe democratico, informato dalla ragione tecnocratica e progressista che regge anche il mondo occidentale avanzato, finisce per degradarsi in figura di politico astuto, attento alla difesa degli interessi di proprietà, suoi e della fazione che lo appoggia, e per stravolgere  la giustizia in privilegio di classe, giungendo infine per puro tatticismo anche a stringere un’alleanza innaturale, contraddittoria per un laico come lui, con le forze oscurantiste  e  reazionarie rappresentate dalla sorella Elettra. Si tratta di un patto di reciproco puntello in cui è evidentemente controfigurato l’avvicinamento “storico” tra gli ambienti della Sinistra e la Democrazia Cristiana.
E’ a queste manovre di opportunismo conservatore che si sottrae Pilade, personaggio che nel mito è presenza muta, ombra di Oreste e quasi suo accessorio, mentre qui si eleva a protagonista, perno del dibattito e fin dal titolo eroe centrale. Pasolini vi proietta molta parte di sé e del suo animus polemico, facendovi confluire gli echi di tante altre figure rilette in chiave di dissenso: Cristo, Dante, Leopardi.
Il  timido e scandaloso Pilade è appunto il disobbediente, l’eretico, il diverso che, in nome di un suo ideale di “libertà e giustizia” coniugata con il rispetto dei valori sacri della tradizione e della pietas, tradisce la sua classe di origine e si mette dalla parte dei diseredati, di cui il nuovo governo non pare voler prendersi cura. E’ inevitabile dunque che questo scomodo campione irriducibile del no debba essere messo a tacere, se non con la violenza, quanto meno con un processo apparentemente regolare, come avviene nel raro quadro giudiziario del  terzo episodio ambientato in un tribunale. E’ un procedimento, tuttavia, viziato all’origine, in diretta conseguenza della parabola degenerata della democrazia politica, ormai sclerotizzata in sistema autodifensivo. Colpito infatti da una raffica di accuse pregiudiziali pronunciate in sua assenza (frequentazioni sospette, ambizione, nichilismo distruttivo, blasfemia), l’imputato non gode nemmeno di un avvocato difensore ed è infine bandito dalla comunità, cacciato in un esilio che ne accomuna il destino a quello di tanti altri ribelli ostracizzati in vita e riconosciuti solo post mortem.
La rivolta di Pilade non approda ad alcun trionfo umano nel testo di Pasolini, in cui, dopo quel processo-farsa avallato dal potere, fallisce anche il progetto di una rivoluzione proletaria e di una guerra civile, pallida e quasi parodica eco della lotta resistenziale. Infine l’eroe, abbandonato dai compagni partigiani che gli preferiscono le sirene del (falso) benessere promesso dal duo Oreste-Elettra, si ritrova isolato e sconfitto, in compagnia di un ragazzo e di un vecchio addormentati, fantasmi proiettivi delle diverse fasi della sua vita, passata e futura, e insieme richiami cristologici al Gesù tradito e circondato dagli apostoli appisolati nell’orto dei Getsemani.
A vincere, in questa fantasia teatrale che sovrappone il mito alla storia verificabile, sono altre forze di cui Oreste, con il suo cinismo opportunistico, è stato l’antesignano e il primo fautore. Nelle profezie delle Eumenidi e di Atena, che aprono nel testo straordinari squarci visionari, il futuro conoscerà infatti altri trionfi: la fine della storia, in senso umanistico, e l’avvio di una “nuova Preistoria”, in cui tutti, dentro e fuori il Palazzo, saranno omologati nel penitenziario del consumismo, automi di un modello unico di “sviluppo senza progresso”,  della cui assolutezza, quando sarà totale e irreversibile, si accorgeranno troppo tardi.
Furono i rovelli anche dell’ultimo Pasolini corsaro, polemista disperato ma anche mai arreso nei confronti dell’inferno della società neocapitalistica  in cui pure  –lo dimostra la vicenda del contraddittorio tra Oreste e Pilade- ogni ipotesi rivoluzionaria di cambiamento è destinata allo scacco e il potere stesso, come un Moloch, pare immutabile e intercambiabile.
E tuttavia brillano di luce alternativa e si fanno lieviti possibili di speranza utopistica  altre testimonianze e altre energie ideali: la diversità, il rifiuto senza cedimenti compromissori, il non adattamento. Di questi principi si fa carico il Pilade di Pasolini. E, come lui, i poeti, «questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica» –così scrisse nel 1962 su “Vie nuove”-  che non si addormentano nella propria normalità, vivono in perenne emergenza e soprattutto non dimenticano.

"Pilade" di Archivio Zeta. Foto di Franco Guarnascione
“Pilade” di Archivio Zeta (2015).  Foto di Franco Guarnascione