Pasolini autonomista tra adesione e delusione, di Paolo Medeossi

I bellissimi spazi del castello di Valvasone, a un passo da Casarsa, sono stati aperti al pubblico eccezionalmente mercoledì 13 maggio 2015, per ospitare un pomeriggio di riflessione a più voci sulla militanza, teorica e pratica, del giovane Pasolini friulano sul fronte autonomista dell’immediato dopoguerra. A parlare di questo aspetto dell’impegno politico di Pasolini, poco esplorato o poco noto al di fuori del Friuli, sono stati lo storico Andrea Zannini dell’Università di Udine e gli studiosi di cultura friulana Gianfranco Ellero e Gianfranco Scialino. Coordinavano Angela Felice e Paolo Medeossi, cui si deve l’efficace considerazione consuntiva apparsa sul quotidiano “Il Messaggero Veneto” del 14 maggio.
Da ricordare che l’iniziativa, promossa dal Centro Studi Pasolini di Casarsa, rientra negli appuntamenti della seconda edizione della “Settimana della cultura friulana” organizzata dalla Società Filologica Friulana.

L’anticonformismo del pensiero autonomista di Pasolini 
di Paolo Medeossi

messaggeroveneto.gelocal.it – 14 maggio 2015

Castello di Valvasone, 13 maggio 2015. Visione del pubblico
Castello di Valvasone, 13 maggio 2015. Visione del pubblico

Pier Paolo Pasolini aderì all’idea dell’autonomismo in maniera spontanea, attraverso la lingua e la poesia, come se sgorgasse da una freschissima risorgiva. Aveva ventidue anni, c’era la guerra, qui comandavano i tedeschi e lui scrisse nel friulano della Casarsa materna la famosa frase: «A vegnarà ben il dí che il Friul al si inacuarzarà di vei na storia, un passat, na tradision» [Verrà una buona volta il giorno in cui il Friuli si accorgerà di avere una storia, un passato, una tradizione, ndr. ]. Parole risalenti al 1944 e per nulla retoriche o generiche, ma dette con l’animo fervido d’un ragazzo straordinario, capace di elaborare nel suo isolamento di Versuta un programma culturale, politico e sociale, destinato a trovare punti di contatto con ciò che stava nascendo fra Udine, Gorizia e dintorni.
Va precisato che la prima scelta di campo sull’argomento non avvenne grazie a un partito, ma alla Filologica che nel congresso tenuto a San Daniele dopo la guerra, nell’ottobre del 1945, approvò un documento parlando del Friuli come di una “inscindibile unità”. In tale occasione il giovane professore di Casarsa entrò nel consiglio della società, mentre il 30 ottobre aderì all’Associazione per l’autonomia che aveva come motto il “Di bessoi”[Da soli, ndr.] e che l’avvocato Tiziano Tessitori aveva fondato il 29 luglio, con una riunione nell’osteria “Alla buona vite” di Udine. In seguito, per creare proselitismo e contrastare i nemici dell’autonomia (presenti a Udine e soprattutto nel Pordenonese) l’Associazione lasciò il passo al Movimento popolare friulano, allo scopo di irrobustire un’azione ritenuta ancora «sconnessa e discontinua».
Il 12 gennaio 1947 uscì il manifesto che annunciava la volontà di unire, al di sopra di ogni partito, «tutte le forze di coloro che nelle autonomie regionali vedono l’unica garanzia delle libertà democratiche». Otto i promotori: tra gli altri Luigi Ciceri, Chino Ermacora, Pasolini e Gianfranco D’Aronco, ancora lucidissimo testimone di quel periodo, al quale dobbiamo una minuziosa ricostruzione nel libro Pasolini riveduto e corretto. In particolare, D’Aronco vi annotò: «Pier Paolo fu molto leale perché avvertì pubblicamente gli autonomisti di essere comunista e i comunisti di essere autonomista».
Il poeta rappresenta quindi a Casarsa il Movimento, cerca adesioni, fa propaganda, scrive articoli fondamentali. «La Regione friulana – afferma – genererà una civiltà in quanto coscienza, superando convenzioni e sentimentalismi. I comunisti temono nella Regione un rinfocolarsi del conservatorismo borghese e clericale? Ma no, si tratterebbe piuttosto di un suo indebolimento e dipenderebbe, in ogni caso, da essi il suggerire e l’instaurare una nuova mentalità capace di trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza. Per noi la questione della Piccola Patria non è una questione sentimentale. I democristiani puntano sul sentimento, ma questo è solo il punto di partenza».
La strada si presentava comunque irta di ostacoli e contrasti. Tessitori sperava che la Costituente avrebbe approvato la riforma regionalista dello Stato e che al Friuli sarebbe stata riconosciuta l’autonomia. A complicare le cose nell’ottobre del 1946 si fecero vivi i partiti di Pordenone auspicando la nascita di una regione veneta, da Gorizia a Rovigo. E Pasolini rispose affermando che i pordenonesi non erano autentici friulani perché non parlavano la marilenghe. «Questo discorso – aggiunse – può sembrare per lo meno insensato ai dirigenti dei partiti, ma io li prego di credere che non si tratta di astrattezze: non c’è nulla di più scientifico della glottologia».
Alla fine la Costituente sospese la richiesta di autonomia speciale e Pasolini, come altri, non credendo più nel Movimento, si dimise nel febbraio del 1948 decidendo di continuare la battaglia nel partito comunista, al quale si era iscritto, pur intuendo, come spesso gli capitò, di trovarsi all’opposizione dentro il gruppo in cui aveva scelto di militare. «Io – disse – volevo dare alla questione un carattere anti-provinciale, antinazionalistico e tutto logico e funzionale, osservandolo dall’angolo visuale della sinistra. E proprio non capivo come mai comunisti e socialisti fossero così sordi al problema. A me sembrava che il fatto che la Dc fosse autonomista non fosse una ragione sufficiente per essere anti-autonomisti. Era importante portare una diversa interpretazione dello stesso concetto».
Lasciando il Movimento, Pasolini ne individuava le varie anime, i diversi “Friuli autonomi”, sostenendo che ce n’erano ormai quattro e facevano capo a Tessitori, D’Aronco, Vigevani e Marchetti. Aggiunse che il più valido e coerente gli sembrava quest’ultimo. Ma pre Bepo Marchet replicò cosí: «Pasolini al è un braf frut: tantis voltis plui braf che no frut, qualchi volte plui frut che non braf. E qualchi volte un poc par fate» [Pasolini è un bravo ragazzo: tante volte più bravo che ragazzo, qualche altra volta più ragazzo che bravo. E qualche volta un po’ per sorte, ndr.]. Questo dunque il passato. Il tema resta attualissimo, anche a 40 anni dalla morte del poeta. E nell’ambito della Settimana della cultura friulana se ne è discusso ieri in un convegno al castello di Valvasone, organizzato in collaborazione dalla Filologica friulana e dal Centro studi Pasolini. Sul tema “Padre Romano e Madre Tradizione. Il pensiero autonomista di Pier Paolo Pasolini” sono intervenuti Gianfranco Ellero, Gianfranco Scialino e Andrea Zannini, moderava Angela Felice. L’incontro è stato arricchito dalla lettura di testi pasoliniani a cura di Fabiano Fantini e da interventi musicali di Paolo Forte. Una domanda infine: tagliando i legami con il Movimento per l’autonomia, Pier Paolo disse di voler uscire da un «prisma di interessi, vanità, invidie, malafedi, ingenuità, eccetera». È ancora così, 70 anni dopo?