Nico Naldini: una vita di poeta fra i poeti, di Antonio Gnoli

Nico Naldini: “La mia vita di ossessioni e di amicizie
svanite senza più Pasolini, Comisso, Penna e Parise”

di Antonio Gnoli
da «La domenica di Repubblica», 19 maggio 2013

Mi rigiro tra le mani il nuovo libro di Nico Naldini dedicato a Fi­lippo De Pisis. In realtà un vecchio lavoro pubblicato anni fa da Einaudi e oggi riapparso, da Tamellini editore, come quegli esangui cadaveri del cinema di Romero venuti a turbarci i son­ni. Perché la vita di uno dei più grandi artisti italiani del ‘900 ci insegue e ci turba al di là degli oli, delle gouache e di quei colo­ri che a perdifiato si infilano in una forma e creano meraviglia e stupore. E penso che anche le grandi tragedie abbiano la loro futilità. E penso che la futilità sia stata una misura protettiva nella vita di certe persone distrutte dalle circostanze. Come quando al povero De Pisis non restò che il manicomio di Brugherio e il corteo di afflizioni che lo inseguì fino alla morte. «Quando non ebbe più i soldi per la retta, la clinica lo mise nell’area dei dozzinanti, come veniva chiamato il reparto co­mune. Gli avevano concesso un gabbiotto dove si rintanava a dipingere trappole per topi. Cominciarono ad approfittarsi di lui. Arrivavano con qualche tela o foglio, spesso falsi, mercan­ti, galleristi, studenti dell’accademia. Maestro, metta una firmetta quaggiù. E lui inconsapevole firmava e a volte accarezzava se a chiedergliela era un gio­vane», ricorda Naldini dal letto su cui siede in posizione eretta.
Nella piccola casa alla periferia di Treviso si è trasferito da qualche anno. Dettagli di una vita che è scesa di qualche gra­dino. Un giardinetto disadorno. Molti libri sparsi un po’ ovunque e qualche modesta sup­pellettile. Nulla rimanda all’opulenza di una delle città più ricche d’Italia.

Com’è la vita in questi luoghi?
«Non lo so. Vedo pochissime persone, sono quasi sempre chiuso qui dentro, a intristirmi e a pensare alla mia sfiga aggravata anche da una fastidiosa vertigine che ha poco di letterario».

E il Veneto un po’ folle e felice?
«Non c’è più, sparito insieme a quegli scrit­tori che avevano fatto della stravaganza la loro bellezza. Un certo epicureismo, il non dar peso alle cose, le feste eleganti con gente spiritosa: non è rimasto quasi più nulla. Dove è finita tut­ta la leggerezza di una volta? Quella per inten­derci che, insieme alla malizia, ammiravamo negli affreschi di Tiepolo».

Cosa è accaduto?
«A un certo punto c’è stato il boom industriale. Capannoni che proliferavano ovunque, che hanno cambiato la mentalità della gente, diventata di un moralismo terrificante. Un tempo la bandiera dei Veneti era mi non vao a combattar. E invece so­no andati a combattere per diventare ricchi. E con che risulta­ti? Oggi di quegli edifìci venuti su come funghi ne chiudono tan­tissimi. Mi tengo lontano dalla cronaca, ma vedo il dramma».

Perché non lo racconta?
«Sono un narratore di vite, non di morti, di amici che ho inseguito, e non perseguitato».

Ha contato molto per lei l’amicizia?
«Mi sovviene un verso di Andrej Belyj: “Ma cos’è più gradito al mondo / che la perdita dei migliori amici?” L’amicizia più lunga fu quella con Goffredo Parise. Poi sul finale della sua vita inspiegabilmente si ruppe».

Cos’era accaduto?
«Sinceramente non lo so. Cominciò col negarsi al telefono. Forse qualche pettegolezzo, qua nel Veneto sono specialisti. Sospetto che alla fine covasse una sua latente omofobia come mi si rivelò in suo epigramma postumo. Ricordo di un suo litigio in casa editrice Longanesi con Giovanni Comisso: “Tutti co­sì, voi altri culattoni!”, esclamò dandogli degli schiaffetti sulle mani».

Cosa pensa di Parise scrittore?
«Sono incerto, dovrei rileggerlo. Quello che mi piace di me­no sono i Sillabari. Mi sembrano sopravvalutati. Scambiati per l’inizio di una nuova estetica narrativa, fondata su una sofisti­cata semplicità. Ce ne vuole per diventare Truman Capote».

Cos’è la scrittura per lei?
«Indovinare l’istante di leggerezza. È così facile scrivere in modo accademico e serioso».

Accennava a Comisso…
«Lo conobbi che ero giovane. Attraverso un compagno di università gli feci giungere un mio libretto di poesie. E lui qualche giorno dopo venne a trovarmi a Casarsa dove vivevo. Comparve con una macchina nera dai sedili in pelle rossa. Scese con aria marziale, mi squadrò e scherzando disse: “è la macchina di Hermann Göring”. Voleva fare colpo su di me. Gli piacevano gli uomini, anche se molte donne si erano innamorate di lui».

Non ne ha mai fatto mistero.
«È vero, non ha mai taciuto sulle sue tendenze. E mi viene da ridere che tutto questo oggi lo si chiami “outing”. C’è bisogno di una parola inglese per dichiararsi frocio? Vecchi signori omosessuali come Aldo Palazzeschi e Marino Moretti, pratica­vano con molta libertà senza dirlo granché. Comisso raccontò, nelle ultime pagine de Le mie stagioni, del suo amore infelice per Guido Bottegai, fucilato per errore dai partigiani. È stato un meraviglioso scrittore, un flusso benefico per la mia depressio­ne che mi avvolse a Roma. Stavo malissimo. Goffredo, preoc­cupato, mi mise a disposizione il suo piccolo studio romano. E lì stetti un paio di mesi. Rileggere Comisso fu allora più efficace degli psicofarmaci».

Cosa scatenò la depressione?
«La morte di mio cugino Pasolini. Alla mancanza di vitalità si aggiunsero numerose fobie. Le pareti della mia casa, in via del Babuino, rimbombavano di ossessioni. E le interpretazioni che cominciavano a fioccare attorno all’omicidio di Pier Paolo erano diventate per me insopportabili. Gli intellettuali rifiutarono, quasi in blocco, la spiegazione più semplice e cioè che quel de­litto era una questione maturata per una prestazione sessuale rifiutata. Invece, Laura Betti fu la prima ad accreditare la lettu­ra politica di quell’omicidio».

Che tipo era la Betti?
«Spiritosa, divertente e carogna. Aveva un piacere sadico nel mettere in difficoltà la gente. Però era al tempo stesso una don­na di grande generosità».

In che modo è cugino di Pasolini?
«La mia mamma e la sua erano sorelle. Da bambino in poi ho frequentato spesso i Pasolini».

Era l’enfant prodige che poi si è detto?
«Lo era. Cominciò presto a scrivere poesie bellissime in friu­lano. Poi ci fu il periodo in cui sì invaghì dell’ideologia marxista senza aver letto Marx. E si instradò burocraticamente nella vi­ta del partito. Divenne segretario di una cellula del Pci, il quale contava molto su di lui. E quando scoppiò lo scandalo per la sua omosessualità fu espulso, gettato via come cosa indegna».

Come reagì?
«Se soffrì non lo fece vedere. Ricordo che la mia povera zia si era messa a letto disperata e Pier Paolo che l’abbracciava dice­va con la sua vocetta: “anche André Gide venne accusato di atti osceni”».

Però non restò molto a Casarsa.
«Una notte d’inverno lui e la madre scapparono. Io, quasi complice della fuga, li accompagnai al treno per Roma. Porta­vano una borsetta piena di gioielli che il padre aveva regalato alla madre. Si dimostrarono tutti falsi. Ci salutammo. Pier Pao­lo si raccomandò che mettessi in salvo i libri, in particolare la collezione Laterza dei filosofi».

E lei poi li raggiunse a Roma?
«Lasciai Casarsa per Milano. Era il l957. Grazie a Comisso andai a lavorare alla Longanesi dove rimasi per 15 anni. Venni a Roma quando si presentò l’occasione di lavorare per il cinema. Roma viveva ancora dei resti della dolce vita. Con Pier Paolo fa­cevamo scorribande. Lui ormai era il profeta delle borgate. Le aveva scoperte, studiate, amate e capite. Figurarsi il pci che non sapeva nulla di quel mondo. E quando uscì Ragazzi di vita, gli intellettuali comunisti si offesero».

Com’era umanamente Pasolini?
«Un misto di generosità ed egoismo. Tutto ruotava attorno a sua madre. Il suo mondo sentimentale si riduceva alla figura materna. Avvertiva, nell’ipotetica morte della madre, la cata­strofe da esorcizzare continuamente. Poi subentrò Ninetto Davoli e se ne innamorò perdutamente. Non ho mai capito il senso di quella passione».

Perché?
«Pier Paolo era un “dragher di boys”. Per giunta spericolato. Una volta, eravamo a New York, per corteggiare un tipo finì nel­la tana delle Pantere nere. Io morivo di paura. E lui sempre più impavido e audace. Solo negli ultimi anni divenne più prudente. Ninetto fu la realizzazione del mito del buon selvaggio. Un po’ quello che per Sandro Penna era stato Raffaele. Penna morì due anni dopo Pier Paolo».

Lo ha conosciuto?
«Bene. Me lo presentò proprio Pier Paolo nel 1952 a Ponte Ga­ribaldi, sul lungotevere. Aveva un modo curioso di strascicare i piedi ed era sempre attorniato da ragazzini. Era pigro, maligno, nevrastenico. Si arrangiava vendendo spesso quadri improba­bili. Acquistò una Mini Morris di seconda mano con la quale si faceva portare a Ostia dal suo Raffaele. Aveva fatto togliere il sedile davanti e avvolto in un lenzuolo con accanto il cane e la sabbia sparsa ovunque, si sdraiava nella parte posteriore come un vecchio e grottesco re in esilio. Quando Raffaele lo abbandonò, Penna si trasformò in un commediante ossessivo e querulo».

Nel sentirla parlare si ha la sensazione di cogliere un piace­re acre in queste storie dove l’omosessualità è il tratto domi­nante.
«L’omosessualità, non come espressione convenzionale o ideologica, è la cosa che mi ha più interessato nella vita. E ho raccontato certe storie senza esibirle in modo polemico, didat­tico o apologetico. Non ho mai pensato che esista una lettera­tura gay. Ciò che mi interessava scoprire di quel mondo che mi appartiene erano gli aspetti esistenziali: i dolori, le gioie, i furti subiti, le offese ricevute».

Non capisco se la fanno soffrire o la divertono?
«Forse entrambi gli stati d’animo. Anche se tendo alla de­pressione».

Non si direbbe.
«Ho attacchi di panico quasi giornalieri. Metto tutto sotto controllo con i farmaci e un po’ mi rassegno. Ho sempre avuto una vita difficile, ma ho cercato di non farlo vedere. Con qual­che amico ho detto che avrei voluto qualcosa di risolutivo. Manca il coraggio. Sono in attesa».

A proposito di depressione era nota quella di Andrea Zanzotto.
«Credo che la sua fosse genetica. La madre ne soffrì tantissi­mo. Con lui ci si vedeva spesso al supermercato di Pieve di Soligo, dove un tempo ho abitato. Di solito comprava mezz’etto di prosciutto. Era di un’avarizia buffa. Meticolosa. Grande poeta, dotato di una cultura tremenda. Andava da tutti i medici possibili ed è morto in tarda età, sanissimo. Non aveva niente. Ma è quel niente che ti fa soffrire».