Marco Pannella,  una vita di battaglie civili, e PPP

Il 19 maggio 2016, dopo aver combattuto contro due tumori, è morto in ospedale a Roma lo storico leader radicale Marco (al secolo Giacinto) Pannella, 86 anni,  simbolo della difesa dei diritti civili. Nel corso della sua vita, ha portato avanti battaglie controverse ma fondamentali per il dibattito pubblico nella storia dell’Italia repubblicana degli ultimi decenni, in cui è stato un protagonista di indubbia personalità. Fondatore del Partito radicale, ma soprattutto impegnato sul fronte dei diritti civili, ha sempre cercato di affermare la legalità e “il diritto alla vita e la vita del diritto”, con il ricorso agli scioperi della fame e della sete e in sostanza alla pratica della lotta politica non violenta, come il Mahatma Gandhi e Martin Luther King, suoi punti di riferimento. Tra le sue moltissime battaglie, imprescindibili dal suo nome e dal “suo” Partito radicale sono quelle sul divorzio e l’aborto, la quale ultima ha tolto le donne dalle pratiche clandestine delle mammane. Grande sostenitore dello strumento referendario, ha raccolto, nel corso di tre decenni, quasi cinquanta milioni di firme necessarie alla promozione di molte delle campagne referendarie italiane, fino alla più recente del 2005 per l’abrogazione in tutto, o in parte, della Legge 40 sulla Procreazione medicalmente assistita (Pma). Referendum fallito, in questo caso, anche per la crescente disaffezione degli italiani nei confronti della politica e dello stesso strumento referendario, oltre che per l’ostilità clericale.
Torrenziale, narciso, un “Brancaleone”, come lo definì Indro Montanelli che lo ammirava, amato dagli intellettuali come Leonardo Sciascia, Ionesco e Sartre quanto tenuto a distanza dai comunisti e disprezzato dai conservatori e da molta parte del mondo cattolico, Pannella fu comunque rispettato, nel trasversale riconoscimento della coraggiosa e fantasiosa intraprendenza anticonforme del suo agire politico.
L’occasione della scomparsa di Pannella ha fatto affiorare anche il capitolo non molto noto, e in parte ancora da scrivere, circa i rapporti intercorsi tra lui e Pasolini, che negli anni Settanta guardò con la consueta lucidità e a tratti con simpatia al fenomeno radicale e al suo leader indiscusso.  Su Pannella, pubblichiamo un bel ritratto di Marco Damilano, che ne ricostruisce la personalità e, tra pregi e limiti,  lo interpreta come il geniale anticipatore della moderna politica spettacolarizzata, personalizzata e post-ideologica. (af)

Marco Pannella, ultimo profeta dell’antipolitica. Un ritratto
di Marco Damilano

http://espresso.repubblica.it – 19 maggio 2016

«Un gigionesco mattatore capace di rubare il posto a un morto nella bara pur di mettersi al centro del funerale», scriveva Indro Montanelli di Marco Pannella negli anni Settanta, in un ritratto pur affettuoso: «È figlio nostro, un figlio discolo e protervo, un gianburrasca devastatore, un brancaleone, uno sparafucile, un saccheggiatore di pollai». Ma sempre figlio nostro: di un’Italia laica, liberale, anarchica. Ora che non c’è più, in molti spereranno di vederlo prendere la parola al suo funerale, per non abbandonarla. Alzandosi in piedi, come aveva fatto una volta citando il Calvero di Chaplin in Luci della ribalta, Marco Pannella dirà: «Non vi preoccupate, sono già morto tante volte».
La morte, la vita, la fame, la sete, i liquidi, la pipì. Il corpo come arma di lotta politica: il corpo delle donne, la libertà dell’utero contro il potere delle mammane, il corpo costretto in cella dei detenuti, il corpo prigioniero della malattia come quello di Luca Coscioni, ma anche il corpo di Ilona Staller nell’aula della Camera, con il seno nudo in piazza Montecitorio, a scandalizzare i benpensanti. E, più di tutto, il corpo del Marco, offerto a riscatto dei non rappresentati, quasi cristologico ma più di ogni cosa pannellacentrico, brandito come un oggetto contundente, gettato nella mischia, slentato, deformato. Carne, sangue, guance infossate, labbra screpolate, occhi vitrei. E la voce che non si fermava mai.

Marco Pannella e la battaglia per il divorzio
Marco Pannella e la battaglia per il divorzio (1974)

Il primo digiuno pannelliano risale al 10 novembre 1969, un mese prima della strage di piazza Fontana, serve ad accelerare il voto della Camera sulla legge Fortuna-Baslini sul divorzio, sarà approvata diciotto giorni dopo. Il secondo, nel 1972, è per l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza. Il più drammatico (e tra i più lunghi: durerà 78 giorni) è quello che comincia il 3 maggio 1974, nove giorni prima del referendum sul divorzio. La sala Cavour dell’hotel Minerva è «la sala del digiuno», la chiama Camilla Cederna, nella stanza 167, costo seimila lire al giorno, Pannella è steso su un lettino, i medici diffondono comunicati: all’inizio il digiunante pesa novantanove chili e trecento grammi, alla fine scenderà a settantadue chili, le pulsazioni del cuore passano da ottantaquattro a quaranta, l’alimentazione è garantita da quattro tazze di latte macchiato, due cucchiaini di zucchero, sette litri di acqua. Interviene Pier Paolo Pasolini sul “Corriere”: «Marco Pannella è giunto allo stremo. La volgarità del realismo politico sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobare il suo scandalo. Il mondo del potere ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita, un assassinio». Pannella digiuna per un quarto d’ora di televisione della Lid, la lega italiana divorzista, e un quarto d’ora per l’abate Franzoni, capofila dei cattolici del dissenso. Il 19 luglio il leader dei radicali appare sul piccolo schermo, la Rai democristiana vacilla, poi ecumenicamente apre le porte.
E per la prima volta le due dimensioni del pannellismo si toccano: digiuno e televisione, scandalo e politica-spettacolo, coraggio e narcisismo, il brivido del funambolo che cammina sul filo. «Può darsi che si esibisca, ma senza rete di protezione», scrive Enzo Biagi. Pannella vestito da Babbo Natale. Pannella che distribuisce a ferragosto le banconote del finanziamento pubblico.

Marco Pannella
Marco Pannella

Pannella che fuma gli spinelli e brinda con la sua pipì e la beve davanti alle telecamere. Pannella sotto il lenzuolo che fa il fantasma. Pannella con il numero degli iscritti al partito radicale dipinti sulla fronte. Torrenziale, logorroico, irrefrenabile nei suoi fili diretti con gli ascoltatori nella notti di “Teleroma 56” e di “Radioradicale”, affiancato da Massimo Bordin. Ma l’intervento più riuscito resta quello di giovedì 18 maggio 1978, alla tribuna autogestita sul referendum, in prima serata su Raiuno. Via la sigletta, appaiono seduti uno accanto all’altro Pannella e Mauro Mellini. Imbavagliati, con lo sguardo fisso e un cartello al collo, identici alle foto polaroid di Aldo Moro nel covo delle Br che hanno appena sconvolto gli italiani. Silenzio assoluto, cambiano i cartelli («Cittadini, difendete subito i vostri diritti!»), cambiano i compagni di Pannella (entrano Gianfranco Spadaccia e Emma Bonino), per ventiquattro interminabili minuti.
Il più fragoroso silenzio della storia della tv italiana. Pannella odiato, negli anni Settanta, dalla destra, dai moderati, dai democristiani, dalla sinistra comunista. La sera della vittoria più bella, il referendum sul divorzio del 12 maggio 1974, i radicali festeggiano in piazza Navona. Si affacciano Maurizio Ferrara (il papà di Giuliano) e Paolo Bufalini, comunisti togliattiani e romani veraci. E Ferrara riassume pesantemente lo spettacolo in un sonetto: «’na manica de gente assai lasciva/finocchi e vacche ignude alla Godiva./Ar vedelli smanià come bonzi/sor Paolo ciancicò: “Bell’allegria,/ce tocca vince pure pe’ sti stronzi”». Quando due anni dopo Pannella si avvicina al portone di Botteghe Oscure il compagno di vigilanza lo abbatte con un pugno.
E Ferrara racconta la scena: «’Sto marpione fa l’offeso, me punta, fa ‘no strillo/ e m’è toccato a daje ‘no sgrugnone». A ripensarci i radicali nudi sul palcoscenico, l’onorevole Cicciolina e le parolacce lanciate al telefono nel microfono aperto di “Radio radicale” già a metà degli anni Ottanta, antenato della volgarità on line e degli insulti contro gli avversari sulla Rete, la campagna per le astensioni e le schede bianche e nulle nel 1983 e le grida contro «il Parlamento-squillo» che accompagnano l’ingresso in aula del deputato Toni Negri (che poi scapperà), si capisce adesso quel che allora sfuggiva a tutti, tranne che a Pannella. Che la politica italiana era entrata in crisi, già negli anni Settanta, che le forme tradizionali della politica non rappresentavano più la società, in crescita vertiginosa, civile e economica, ma anche disorientata e confusa. Di questa trasformazione epocale Pannella è stato l’interprete più geniale.
Ha anticipato tutto: la politica-spettacolo, la trasversalità, la personalizzazione (nel 1992 fu il primo a candidare in Italia una lista con il suo nome: lista Pannella). La disaffezione: nel 1983 fece una doppia campagna elettorale, per il suo partito e per le schede bianche-nulle e astensioni. E la partecipazione, con i referendum, in fondo la sua invenzione che resterà. La bio-politica: l’onda lunga che è arrivata fino ad oggi, alle unioni civili, alla paternità di Nichi Vendola.

Leonardo Sciascia e Marco Pannella
Leonardo Sciascia e Marco Pannella

Politico di professione, come forse nessuno, totus politicus, avvezzo a tutte le manovre e le furbizie, fin dagli anni dell’Unuri, del partito liberale, del “Mondo”, del partito radicale nato nel 1955, della tribù di Torre Argentina, unita nel segno di Marco e divisa nella diaspora a destra e a sinistra, da Francesco Rutelli a Daniele Capezzone, da Benedetto Della Vedova a Peppino Calderisi, Marco Taradash, Roberto Giachetti e, più di tutti, Emma Bonino.
Difensore delle istituzioni repubblicane, dunque, ma anche profeta dell’antipolitica, modernamente intesa, anticipatore di processi di distruzione, spericolatamente a cavallo tra la ridicolizzazione dell’esistente, il libertinismo politico, il buffone che dichiara la nudità del Re e del potere. «Sì, sono un guitto», diceva di sé ben prima che Beppe Grillo immaginasse di fare un giorno politica. E Federico Fellini, in Ginger e Fred (1986), piazza il politico digiunante e lamentoso nel caravanserraglio dell’anticamera di un talk show, insieme a Moana Pozzi, immagine profetica della politica attuale. La battaglia più importante resta quella sui diritti civili, la più generosa quella sulla fame nel mondo che gli valse l’apprezzamento di papa Wojtyla, la più bella quella su Enzo Tortora e la giustizia giusta. Quando insieme salirono sul palco di piazza Navona, una sera, indimenticabile il viso scavato del giornalista ingiustamente processato, la sua dignità, Pannella che si regge i pantaloni mentre la sua passione oratoria travolge e commuove la folla.
Gli ultimi anni ci consegnano l’immagine di un Marco in lotta contro la pena di morte, con il Dalai Lama, per i Montagnards vietnamiti, forse contro se stesso. Tollerato nel Palazzo, considerato un monumento nazionale, un padre della patria, ciclicamente candidato allo scranno di senatore a vita, di casa al Quirinale, da Sandro Pertini a Giorgio Napolitano, fino a Sergio Mattarella che un anno fa lo ha ricevuto per primo dopo l’elezione al Colle (e ne venne fuori un video strepitoso), dopo aver contribuito a sloggiare un altro inquilino, Giovanni Leone. Tutti gli altri leader si sono prima o poi impannellati, come ha scritto Filippo Ceccarelli.
E nelle ultime settimane tutti si sono fatti vedere nella sua mansarda vicino alla Fontana di Trevi, fotografati accanto al leader, ripresi al citofono del portone, fino al giorno del suo ottantaseiesimo compleanno, il 2 maggio. Una lunga cerimonia degli addii, con Matteo Renzi e Silvio Berlusconi che nel 2013, appena condannato dalla Cassazione, si mise seduto al banchetto dei radicali in piazza di Torre Argentina per firmare i nuovi referendum, gli ennesimi quesiti. Quella mattina di fine estate Marco si allontanò sotto il sole ancora estivo con la busta di plastica della spesa, il sigaro tra le dita, i piedi scalzi alle scarpe, la buffa cravatta sul maglione blu, il codino da capo indiano.
Così lo abbiamo incontrato ancora fino a pochi mesi fa, sotto la sede del Partito radicale in via di Torre Argentina, la sua vera casa. Era ormai trasfigurato, fino ad assomigliare al Pannella più puro, il laico e il cristiano, l’uomo delle verità impazzite, come può essere pazza e dolce e tagliente la verità. Il Pannella che nel 1973 di sé aveva scritto ad Andrea Valcarenghi nel testo che Pasolini considerò «il manifesto del radicalismo moderno»: «Io amo gli obiettori, i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i non violenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche: ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici. Non credo al potere e ripudio perfino la fantasia se minaccia di occuparlo. Sogno una società senza violenza e aggressività. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri ed alle ideologie…».
Pannella non c’è più. Resteranno il fumo, le parole, i silenzi. E chissà poi se è morto per davvero.