Lingua materna e lingue di adozione. Le riflessioni di Adrián N. Bravi, scrittore italo-argentino

Su “Nazione indiana” del 19 ottobre 2017, su segnalazione di Ornella Tajani, sono usciti alcuni estratti del libro La gelosia delle lingue (EUM Edizioni Università di Macerata) il cui autore,  lo scrittore di origine argentina Adrián N. Bravi, indaga in particolare il rapporto che l’uomo, e in particolare lo scrittore,  intrattiene con la lingua materna o talora, come nel suo caso, con altre lingue di adozione. Si tratta di osservazioni che si possono incrociare con la sensibilità linguistica di Pasolini, poeta in gioventù in una lingua “materna” friulana ma non sua, come scrisse, una lingua abitata anche in virtù della suggestione fantasmatica dei suoi suoni sentiti puri e originari.

La gelosia delle lingue
di Adrián N. Bravi

pubblicato da Ornella Tajani su
www.nazioneindiana.com – 19 ottobre 2017

"La gelosia delle lingue" di Adriàn N. Bravi
“La gelosia delle lingue” di Adriàn N. Bravi

La maternità della lingua 

È possibile, mi chiedo, abbandonare la propria lingua, dal momento che questa non è solo un modo di parlare, o meglio, non ha a che fare solo con un corpo grammaticale, ma anche con un punto di vista? Possiamo, per diverse vicissitudini, voltarle le spalle, abbandonarla o sostituirla, però forse non potremmo mai fare a meno della maternità di quella lingua, intesa come origine irrevocabile, anche quando vediamo il mondo alla luce di una nuova lingua. La maternità di una lingua non ci insegna solo a parlare, ma ci dà uno sguardo, un sentire, un punto di vista sulle cose. La sua sintassi è una prospettiva. Possiamo investire le nostre storie di altre lingue, ma la maternità che la nostra lingua d’origine rivendica su di noi, rimane; perché è un modo di essere, di vivere e di pensare, a prescindere da come la si esprime. È un’ermeneutica del mondo. Parliamo la nostra lingua madre in tante altre lingue.
Silvia Baron Supervielle, autrice argentina che scriveva anche in francese, ha sempre riflettuto sul mutare lingua. Nel 1998 pubblica a Buenos Aires un libro dal titolo El cambio de lengua para un escritor e nel 2007 esce in francese, tradotto in italiano, L’alfabeto di fuoco: piccoli studi sulla lingua. In quest’ultimo libro, l’autrice argentina, fa il suo punto della situazione: «Più ci rifletto più ho la sensazione che la prima lingua non muoia mai: essa permane silenziosa, ma viva, in fondo all’anima» [1]. Questo significa che mentre cresciamo e cambiamo lingua resta in noi un fanciullino pascoliano che confonde la sua voce con la nostra e che continua a guardare le cose attraverso quella maternità nascosta «in fondo all’anima». Ed è quella voce silenziosa, quel timbro velato dalla nuova lingua, che a volte continua a parlarci dentro. Se metto insieme queste riflessioni, capisco quel che scrive Bachelard nel già citato La poetica della rêverie: «passando da una lingua all’altra si ha l’esperienza di una femminilità perduta o di una femminilità mascherata da suoni mascolini» [2]. Ed è lo smascheramento di questa femminilità, attraverso i nuovi suoni mascolini, che la maternità della lingua svela. Ogni volta che parliamo scopre il suo occultarsi nella lingua acquisita.
Nel primo trattato del Convivio (paragrafo XIII) Dante parla dell’amore per la lingua materna, che considera elemento di unione tra i genitori: «Questo mio volgare fu congiungitore delli miei generanti, che con esso parlavano, sì come ‘l fuoco è disponitore del ferro al fabro che fa lo coltello: per che manifesto è lui essere concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere» [3]. Una lingua che non rappresenta solo l’unione tra i suoi genitori, ma partecipa alla nascita ed è, allo stesso tempo, causa della sua esistenza. Una maternità, questa della lingua, che determina la vita e il rapporto con il mondo del figlio. La lingua dentro cui si nasce ci dà gli occhi con i quali continuiamo a guardare il mondo, anche quando non la parliamo più. Dice a tale proposito Italo Calvino in una nota biografica che si trova all’inizio di Eremita a Parigi: «Tutto può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno» [4].
A me, personalmente, è capitato di dover fare i conti con l’italiano che parlo da più di venticinque anni, ancora con parecchi errori, e nel quale scrivo solo da tredici o quattordici anni circa. Durante i miei primi dieci anni di permanenza in Italia ho continuato a scrivere in spagnolo. Mi sentivo troppo legato a quel modo di parlare, anche se la mia idea, quando ero salito sull’aereo che mi avrebbe portato in Europa, era di lasciarmi il passato alle spalle. Per dieci anni ho vissuto un rapporto ambiguo e doloroso con entrambe le lingue che avevo a disposizione, quella di partenza e quella d’arrivo, quella materna e quella del paese in cui avevo scelto di stare, almeno per un po’. Da una parte mi attaccavo ai ricordi, alle parole, alle metafore, al modo di parlare della mia lingua materna; allo stesso tempo, però, volevo liberarmene, non dimenticare, ma far parlare i ricordi con una voce diversa. Si vive dentro una lingua più che in uno spazio geografico. Questo mi sembra di averlo capito quando l’italiano ha iniziato ad avere il sopravvento.
Durante una conferenza del 1987, tenuta a Vienna, Brodskij dichiara che l’esilio è, prima di tutto, un evento linguistico. Chi si trova nella condizione di vivere espatriato, si ritira o si rifugia nella sua lingua; a quel punto «quella che era la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula» [5], il luogo dove trovare un rifugio. La lingua madre come spada che nella lontananza diventa scudo, riparo, lo spazio dove potersi nascondere con i propri ricordi o con il proprio passato per trovare, in quel rifugio, l’intimità nascosta della nostra lingua. Un’intimità però che non riuscirà mai a rimanere nascosta come uno spazio chiuso, perché alla fine ci accorgiamo che quella capsula della lingua madre era un abitacolo pieno di finestre, aperte a tante contaminazioni.

[note]
1 Silvia Baron Supervielle, L’alfabeto di fuoco, traduzione di Anna Bertaccini, Capriasca, Pagina d’arte, 2010, p. 59.
2 Gaston Bachelard, La poetica della rêverie, Bari, Dedalo, 2008 (1° ed. francese 1960), p. 40.
3 Dante Alighieri, Convivio, a cura di Franca Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere, 1995, vol. 2, 1, 13, pp. 56-57.
4 Italo Calvino, Eremita a Parigi, Milano, Mondadori, 1996, p. vii.
5 Iosif Brodskij, Profilo di Clio, a cura di Arturo Cattaneo, traduzione di Giovanni Buttafava, Gilberto Forti e Arturo Buttafava, Milano, Adelphi, 2003, p. 53.

Adriàn N. Bravi
Adriàn N. Bravi

L’ospitalità della lingua

Scrivo e parlo in italiano da molti anni, forse sogno anche in italiano, non lo so. Mi piace sentirmi ospite in questa lingua che ancora non riesco a padroneggiare come vorrei, anche se, fin dall’inizio, mi sono sentito accolto, come un invitato gradito. La lingua è sempre ospitale, aperta a ogni approdo. Non tollera muri divisori, non è proprietà di questo o quel gruppo. Appartiene a chi la parla, la legge, la scrive, senza distinzione di provenienza. Non tiene conto delle nostre origini. È la prima dimora che trova lo straniero, una specie di arco da attraversare. Un arco senza porte e sbarramenti, oltre al quale c’è una storia, una cultura, un’identità, che non sottraggono nulla alla diversità o alterità di chi lo attraversa. Ospitare significa accogliere l’altro nella sua singolarità.
Nell’ultimo libro scritto da Edmond Jabès, Il libro dell’ospitalità, lo scrittore ebreo egiziano, che aveva scelto il francese come lingua, prima ancora del suo esilio parigino, dedica un breve capitolo al tema dell’ospitalità che s’intitola, appunto, L’ospitalità della lingua. È un dialogo tra uno straniero e un ospite, nel quale si parla dell’importanza dell’accoglienza, dell’altro come un noi, che è anche un modo di essere e di stare al mondo. A un certo punto l’ospite ospitante (mi piace specificarlo visto che in italiano la stessa parola designa sia colui che ospita sia colui che è ospitato) chiede la nazionalità allo straniero e questo, ponendo l’accento sul fatto che la lingua che lo accoglie diventa ogni volta il suo paese, risponde che ora, il suo posto, è la lingua che si trovano a parlare in quel momento. Entriamo, da bambini o da adulti, in questa casa che ci ospita e durante il soggiorno creiamo al suo interno i nostri percorsi immaginari, i nostri progetti, i nostri smarrimenti. Impariamo a scoprirla, ad amarla o a odiarla. Seguiamo i suoi spostamenti interni, le sue variazioni. Alla fine però ci accorgiamo che quella casa ci ha trasformato, così come noi, in un certo modo, abbiamo trasformato anche lei, perché l’italiano, nel quale mi trovo a misurare ogni parola, è una lingua flessibile che acconsente le variazioni e le contaminazioni che ogni volta le vengono suggerite.
Dunque, l’ospitalità passa attraverso le parole. M’interessa segnalare il fatto dell’essere accolto, del sentirsi ospite in una lingua straniera, dell’essere uno straniero che piega la lingua che lo accoglie per dare un nuovo respiro allo sradicamento. L’accoglienza produce uno sdoppiamento nell’ospite che parla: da una parte, gli dà la possibilità di trovare una distanza rispetto alla lingua che lo ospita, riesce a vederla da fuori, capisce quante parole non trovano una diretta traduzione e quante altre gli aprono altri orizzonti linguistici; dall’altra, è questa stessa distanza a dargli la possibilità di entrare nella lingua, magari con pudore e in punta di piedi, ma entrarci, capirla, smarrircisi dentro. Crearsi una lingua straniera dentro la propria lingua: «I bei libri sono scritti in una specie di lingua straniera», scrive Proust. Deleuze usa questa frase come epigrafe a Critica e clinica e nelle sue Conversazioni con Claire Parnet precisa:

Dobbiamo essere bilingui anche in una lingua sola, dobbiamo avere una lingua minore all’interno della nostra lingua, dobbiamo fare della nostra propria lingua un uso minore. Il plurilinguismo non significa soltanto il possesso di più sistemi ciascuno dei quali sarebbe omogeneo in se stesso; significa innanzitutto la linea di fuga o di variazione che intacca ogni sistema impedendogli di essere omogeneo. Non parlare come un irlandese o un rumeno in una lingua diversa dalla propria, ma al contrario parlare nella propria lingua come uno straniero [1].

Sullo stare dentro la propria lingua come uno straniero Deleuze tornerà altre volte, insistendo sul movimento attraverso il quale ci si può aprire una linea di fuga nella propria lingua, come fa Bartleby con il suo enigmatico e agrammaticale «I would prefer not to», o lo scavo nei balbettii di Billy Budd. Un mio amico, Alberto Coppari, a proposito di linea di fuga, mi aveva scritto in una lettera: «Credo che uno comincia a fare qualcosa di buono con le parole non quando diventa abile con esse, quando gli viene naturale scrivere bene, ma, al contrario, quando comincia ad avvertire come estranea la propria lingua. Una lingua, insomma, diventa nostra quando la si perde». Un’affermazione simile la trovo in Hugo von Hofmannstahl, che mi ha suggerito il mio amico, quando afferma che il «vero amore per la lingua non è possibile senza ripudio della lingua».

[note]
1 Gilles Deleuze, Claire Parnet, Conversazioni, traduzione di Giampiero Comolli, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 9.

[info_box title=”Adrián N. Bravi” image=”” animate=””]nato a Buenos Aires nel 1963,  è uno scrittore argentino di lingua italiana, attualmente residente a Recanati. Si trasferisce in Italia alla fine degli anni ‘80 per proseguire i suoi studi. Si laurea in filosofia all’ Università degli Studi di Macerata e lavora come bibliotecario presso la stessa Università, dove si occupa prevalentemente della catalogazione di libri antichi.
Nel 1999 pubblica il suo primo romanzo in lingua spagnola e nel 2000 comincia a scrivere in italiano. La maggior parte dei suoi romanzi sono usciti con la casa editrice Nottetempo di Roma. Ha pubblicato anche un libro per bambini, diversi articoli e racconti su varie riviste (il ReportageL’accalappiacaniIn pensieroCrocevia, ecc.) e in varie antologie (Permesso di soggiornoMarchenoirC’è un grande prato verdeAlmanacco Quodlibet, ecc.). I suoi testi sono stati tradotti in inglese, in francese e in spagnolo.
[Fonte Wikipedia][/info_box]

*Foto in copertina: © Vittorio La Verde