L’influenza di PPP sul cinema di Nanni Moretti, di Stefano Bona

L’influenza di Pier Paolo Pasolini sui film e sullo stile cinematografico di Nanni Moretti

Un’analisi di Stefano Bona (Flinders University)

«Flinders University Languages Group Online Review», Volume 4, Issue 3, December 2011
https://www.flinders.edu.au/

 

Lo “scandaloso” Pasolini

Fra gli intellettuali italiani del secondo dopoguerra, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) fu una delle figure più difficilmente inquadrabili: figlio di un militare fascista, cresciuto in un contesto cattolico, fu dichiaratamente comunista e (cosa scandalosa per l’epoca) omosessuale. Incarnazione di tutte le contraddizioni racchiudibili in un essere umano, fu inviso ai cattolici, cacciato dal Pci a causa delle sue tendenze sessuali, attaccato dai neofascisti, censurato, denunciato, querelato e/o processato decine di volte, e infine, il 2 novembre del 1975, brutalmente ucciso. Controverso, certo, ma anche uno degli intellettuali più eclettici nell’Italia del Ventesimo secolo: poeta, scrittore, saggista, critico, esperto d’arte, cineasta solo per citare alcune delle etichette usate per descriverlo. Impossibile riassumerne qui vita e opere, tuttavia alcuni aspetti vanno focalizzati nell’ottica del presente lavoro: le sue riflessioni sul ruolo dell’intellettuale, le teorie cinematografiche, le teorie sul rapporto fra televisione, potere e consumismo.
Secondo Gramsci, gli intellettuali oltre a “sapere”, devono “sentire” le passioni del popolo (che “non sempre comprende o sa”). Invece di restare “distinto e staccato” dal popolo-nazione, il vero intellettuale – unendo comprensione e passione – ne spiega le passioni giustificandole in un determinato contesto storico. Senza questa connessione, i rapporti tra intellettuali e popolo-nazione si riducono a una pura questione burocratica, insomma gli intellettuali “diventano una casta o un sacerdozio”. L’intellettuale deve invece assumere un ruolo di educatore-persuasore, e la letteratura una funzione morale.
Si può dire che Pasolini abbia fatto di queste idee la sua missione, dal primo contatto con la cultura contadina di Casarsa a quello successivo con il sottoproletariato delle borgate romane, e non abbia mai abbandonato la sua vocazione pedagogica: come insegnante e formatore, a Casarsa e a Roma, ha considerato i giovani una “forza innocente da contrapporre alle convenzioni e al moralismo borghese”; e come critico, ha sempre cercato il dialogo con i lettori dei giornali con cui ha collaborato. Nel 1974 scriveva: “sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi […] di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.” Infatti, ha individuato i mali del suo tempo: il consumismo, il potere omologante, la televisione, attaccandoli con forza e provocatoriamente.
Pasolini ha presto intuito che la letteratura non è l’unico mezzo espressivo a disposizione d’un intellettuale. Il cinema, per esempio, per molto tempo è “stato in anticipo sulla letteratura: o almeno ha catalizzato con una tempestività che lo rendeva cronologicamente anteriore, i motivi socio-politici profondi che avrebbero caratterizzato di lì a poco la letteratura”; inoltre, consente di indagare più a fondo i codici di comportamento della cultura popolare come parte della cultura di una nazione. Si capisce quindi di quale forza dispone questo mezzo. A partire dal Neorealismo il cinema italiano è stato influenzato dalla visione gramsciana d’una cultura responsabile del cambiamento della società, e la telecamera è stata usata, così come le parole scritte, per interpretare il presente socio-politico ma anche per denunciare il potere stabilito. Le prime sperimentazioni cinematografiche di Pasolini, da Accattone al Vangelo secondo Matteo, per sua stessa ammissione, sono state create “sotto il segno di Gramsci”: si tratta di lavori di stampo nazional-popolare, rivolti al popolo come classe sociale distinta dalla borghesia. In aperta polemica con “la nuova, tirannica e antidemocratica cultura di massa della società neocapitalistica”, Pasolini fa film d’élite che però possano parlare alla massa, e in questo senso definibili come “un atto di democrazia.”
Si può dire che la nascita della nuova società di massa abbia concluso un’era ideologica su cui era basato il Comunismo: quella della divisione fra le classi sociali e della lotta di classe. Pasolini considera la morte di Togliatti nel 1963 uno spartiacque simbolico del cambiamento, e non a caso inserisce in Uccellacci e uccellini (1965) una sequenza filmata durante il funerale di Togliatti. Inoltre, anche quando non parla alle masse ma a un pubblico politicizzato, Pasolini rivela le sue convinzioni sul ruolo dell’intellettuale. Nello stesso Uccellacci e uccellini il regista fa uccidere e mangiare il corvo/intellettuale ai protagonisti: anche l’intellettuale pedante e prodigo di consigli ha ormai fatto la sua epoca e del resto lo dice lo stesso corvo che “i professori sono fatti per essere mangiati in salsa piccante”. Destino crudele, ma (forse) inevitabile.
I film di Pasolini hanno seguito lo sviluppo del suo pensiero: neorealisti i primi, sempre più ideologici e simbolici quelli successivi. Parallelamente, la sua padronanza delle tecniche cinematografiche è andata man mano affinandosi e, fra le tecniche da lui studiate, il piano-sequenza assume un ruolo rilevante. Nelle sue Osservazioni sul piano-sequenza, Pasolini lo descrive come una “soggettiva”, ovvero “il filmino in sedici millimetri che uno spettatore, tra la folla, ha girato sulla morte di Kennedy”. L’indagine della polizia sull’attentato dovrà metaforicamente montare i piani-sequenza forniti dai vari testimoni e crearne il “film”, ossia ricostruire lo svolgersi dell’azione nella sua complessità, dandole un senso e trasformando in storia, ossia in passato, il presente raccontato da ogni testimone. Analogamente, secondo Pasolini “l’uomo si esprime con la sua azione”, che però rimane priva di unità e di senso finché non è stata compiuta. La vita, infatti, è composta da molteplici azioni, e assume un senso solo quando la morte interviene eseguendo “un fulmineo montaggio della nostra vita”. In quest’ottica, la morte appare necessaria per esprimere la vita, così come il montaggio di un film è necessario per dare un senso alle sequenze che lo compongono. Come vedremo, Moretti renderà con chiarezza questo discorso in Caro diario (1994).
Come detto, Pasolini ha usato il cinema d’élite per rivolgersi alla società di massa, contro la cultura di massa, tirannica e antidemocratica. La cultura di massa secondo lui è una forma di omologazione perpetrata dal potere mediante un mezzo di comunicazione nuovo e dirompente: la televisione, un altro degli argomenti di cui Pasolini si è occupato negli anni Settanta, con esiti sorprendentemente profetici.
Per Pasolini la televisione è uno strumento di comunicazione che pensa per i telespettatori, ai quali infonde “l’ideale piccolo-borghese di vita tranquilla e perbene”, rendendo conformi le loro abitudini e opinioni, ed escludendoli dalla partecipazione politica.
Più precisamente, il centro, il nuovo potere legato a consumismo ed edonismo, “[p]er mezzo della televisione, […] ha assimilato […] l’intero paese […] storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice […]”. Tale omologazione, basata sull’imposizione dell’ideologia del consumo, va a sostituirsi alla religione. Gli italiani hanno accettato questa nuova ideologia dominante, annullando le differenze culturali fra sottoproletariato e borghesia, con un conseguente “rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali”. Di conseguenza, per Pasolini questo nuovo potere è il più autoritario e repressivo in assoluto: se nemmeno il fascismo era riuscito a intaccare l’anima degli italiani, il “nuovo fascismo”, invece, “attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specialmente, appunto, la televisione), […] l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.” Quando Pasolini si esprimeva sulla televisione, le reti commerciali di Silvio Berlusconi non esistevano ancora, né era nota al pubblico l’esistenza della loggia massonica P2, finalizzata alla costruzione d’una rete segreta fra mass media, governo, esercito, servizi segreti italiani. Nel 2008 il fondatore della P2 Licio Gelli dichiarò che solo Berlusconi (uomo più ricco d’Italia, proprietario di gruppi finanziari, editoriali e televisivi, politico e primo ministro) “può proseguire il mio progetto”: una conferma indiretta dell’attualità delle intuizioni pasoliniane sul connubio potere-televisione-conformismo.
Intellettuale scomodo, “maledetto” e profetico, lucido analista e critico della società italiana dal dopoguerra al 1975, Pasolini scelse di dare continuo scandalo denunciando quello che può succedere a una persona pulita in un paese sporco. Paradossalmente, finì vittima delle sue stesse intuizioni. Se infatti teorizzò la fine del ruolo dell’intellettuale, e se spesso ebbe a riflettere anche sulla morte (riflessione di cui la sua teoria sul piano-sequenza è solo un esempio), forse non immaginava – o forse lo aveva intuito – di tramutarsi nel corvo di Uccellacci e uccellini, o che una sua poesia sarebbe diventata tristemente autobiografica: “[…] solo, “pilotando la sua Alfa Romeo”, / […] sono come un gatto bruciato vivo, /pestato dal copertone di un autotreno, / […] come un serpe ridotto a poltiglia di sangue”. Soprattutto, forse non immaginava che la sua morte sarebbe stata inserita anche in un film.
Di seguito si cercherà di spiegare quanto, come e perché la sua figura influenzi il cinema di Nanni Moretti.

NanniMoretti
Nanni Moretti

Moretti: con Pasolini, oltre Pasolini

Sono certamente molte le differenze fra Moretti (n. 1953) e Pasolini. Nanni Moretti ha un’estrazione sociale diversa: figlio di due insegnanti, ha alle spalle una famiglia della borghesia romana. Conduce una vita meno controversa di Pasolini e decide molto presto di usare il cinema per esprimere le sue idee politiche. A vent’anni, quando fa parte della sinistra extraparlamentare, acquista una cinepresa Super8 e comincia a girare i primi film, e in pochi anni riesce a creare un genere cinematografico originale, basato sulla diversità dell’individuo dal resto del mondo, permeato da ironia e sarcasmo. Ma soprattutto, i due cineasti di cui ci stiamo occupando appartengono a due generazioni diverse: Pasolini vive nell’Italia del boom economico, Moretti assiste alla crisi della sua generazione e della sinistra nella società postmoderna.
Queste differenze, tuttavia, non sminuiscono le similitudini. Entrambi sono registi politicamente impegnati e hanno una matrice politica comune. Entrambi riflettono sul ruolo degli intellettuali (seppure le loro opinioni non coincidano pienamente). Entrambi trattano l’importanza della comprensibilità del linguaggio e si occupano della cultura di massa e della televisione (che è parte integrante di alcuni film di Moretti). Pasolini è uno dei punti di riferimento cinematografici per Moretti. Infine, entrambi sanno intuire quanto sta per succedere nella società e nella politica italiane. In quest’ottica verranno analizzati i punti salienti nelle opere di Moretti: il suo porsi come artista umile, l’ironia, il linguaggio, il meta-cinema, la famiglia, la “profeticità”.
Una caratteristica distintiva dei film di Moretti è la sua apparizione in tutti i suoi lavori, spesso come protagonista. Nella maggior parte dei casi (Ecce bombo, Sogni d’oro, La messa è finita, Bianca, Palombella rossa, Caro diario, Aprile, Il caimano) impersona il suo alter ego, benché con diversi nomi (Michele Apicella, Don Giulio, Nanni), mentre in altri assume ruoli meno autobiografici (uno psicanalista in La stanza del figlio e Habemus papam). I suoi protagonisti sembrano diverse incarnazioni d’un unico soggetto, oppure diverse fasi dello sviluppo della stessa persona, o di quello che questa persona avrebbe potuto essere (attivista, insegnante, prete, politico…). Si tratta di personaggi incompresi, falliti, smemorati, frustrati, schizofrenici, tutti membri di famiglie borghesi. Rappresentandosi come una persona fragile, piena di difetti, caratterialmente instabile, più che un atto di autocitazione e narcisismo autobiografico, Moretti sembrerebbe compiere un atto d’umiltà. In realtà, però, l’uso dell'(auto)ironia, il ridere di sé e della vita, il rappresentarsi come uno del gruppo diventa un modo per porsi in una posizione di superiorità. L’intellettuale che ride di se stesso risulta infatti più accettabile agli spettatori, e come suggerisce Rorty (1989: 102-103), l’autore che rinnega qualsiasi autorità finisce con il diventare un’autorità, una guida per i propri lettori.
Confermando di appartenere ai “consumatori” di cultura popolare, Moretti inserisce spesso nei suoi film canzoni pop (Springsteen, Khaled, Leonard Cohen, Battiato, Paoli, Caselli…), riferimenti a film commerciali (dei quali riparleremo) o a ritagli di giornale, la sua passione per lo sport, i dolci e il ballo. Da questo punto di vista, sembra riprendere e sviluppare, adattandole alla società contemporanea, le idee gramsciane sull’intellettuale: immerso nella cultura “nazional-popolare”, diventa (anche usando simpatia e auto-ironia – e quindi autorità) un intellettuale politicamente impegnato, avvalendosi del diritto di critica anche verso la vuota generazione “sessantottina” e verso quella sinistra in crisi di cui lui stesso fa parte. Ma, per quanto ben inserito nella società, per Moretti l’intellettuale resta una figura anticonformista e controcorrente (come chiaramente espresso in Caro diario). Non pretende di diventare un castigatore, né un educatore, riconoscendo che “non voglio avere una missione nei confronti dello spettatore, diffido dei registi che con i loro film vogliono cambiare la testa delle persone”, e non risparmia critiche agli intellettuali che parlano in modo incomprensibile. Questo accenno ci spinge a trattare l’argomento successivo: le riflessioni di Moretti sul linguaggio.
Il linguaggio è un tema che Moretti tratta ripetutamente legandolo soprattutto a commentatori, recensori, critici, giornalisti. Ad esempio, in Io sono un autarchico (1976) un critico teatrale di sinistra commenta pedantemente la rappresentazione avanguardista portata in scena dai protagonisti. In Ecce bombo (1978) un cronista fa interviste strampalate ai giovani d’una cooperativa e agli studenti candidati all’esame di maturità. In Palombella rossa (1989), Michele/Moretti schiaffeggia una giornalista che usa termini quali “kitsch”, “cheap”, “trend negativo” (urlandole: “le parole sono importanti!”) e le ricorda che “chi parla male, pensa male, vive male”. In Caro diario (1994), Nanni fustiga un critico cinematografico rileggendogli una sua oscura e fuorviante recensione di Henry, pioggia di sangue fino a farlo piangere. In Aprile (1998) Nanni invita il leader del Pds D’Alema a dire “qualcosa di sinistra”.
Perché tutta questa enfasi sul linguaggio? Come suggeriscono Mazierska e Rascaroli (2004: 133), il pensiero non esiste senza il linguaggio, che pertanto diventa uno strumento di potere: manipolando il linguaggio, si manipola il pensiero. Cambiando alcune parole, o modificandone il significato, è possibile dar forma alla realtà politica e perfino guadagnare o perdere l’egemonia politica. Non è un caso – aggiungiamo – se i governanti di tutti gli stati (democratici, autoritari, totalitari) pongono estrema importanza all’informazione, alla creazione del consenso e (nei casi più estremi) alla propaganda. Ovviamente, il linguaggio del (e nel) cinema fa la parte del leone.
Le opere del cineasta romano sono un esempio di meta-cinema e abbondano di riferimenti al cinema d’autore e di tendenza, “parlando” in tal modo agli intellettuali e prestandosi a diversi livelli di lettura e interpretazione a seconda delle conoscenze cinematografiche degli spettatori.
Spesso la distinzione fra “dietro” e “davanti” la macchina da presa si attenua: Moretti, per esempio, recita nei panni del regista in Sogni d’oro (1981), Caro Diario e Aprile, nel quale gira il suo agognato musical su un pasticciere trozkista, e ne Il caimano (2006) ci mostra la genesi di un film su Berlusconi; inoltre, gli sguardi rivolti alla telecamera e l’uso di tecniche narrative non convenzionali ricordano i primi film di Godard, in cui gli attori guardavano “in macchina” parlando di politica e cinema.
Numerosi sono anche i riferimenti al cinema d’autore. Il suo autobiografismo, in particolare rivolto alla vita familiare, potrebbe ricordare i film di Stan Brakhage (che in Window Water Baby Moving, del 1959, raccontava la nascita del primo figlio, così come Moretti in Aprile). Spostandosi al cinema italiano, diversi legami con Fellini sono evidenti in più occasioni: Michele Apicella, regista in crisi in Sogni d’oro, ricorda il protagonista di ; anche il finale di Palombella rossa appare felliniano, e in Aprile viene ripresa la colonna sonora di La dolce vita. Caro diario, infine, si può considerare un omaggio a Pasolini. Del resto, Moretti ha spesso menzionato il suo interesse per i film sperimentali di Carmelo Bene, per il cinema politico radicale dei Taviani, di Ferreri, Pasolini e Bellocchio degli anni Sessanta, per Fellini, oltre che per il cinema francese della nouvelle vague, con i quali condivide lo stile sperimentale e anti-dogmatico.
Da artista/intellettuale umile e autoironico, Moretti mescola questi riferimenti con la presenza di numerosi film mainstream e riflessioni sul cinema italiano. Per esempio, in Palombella rossa un gruppo di persone segue con trasporto Il Dottor Zivago di David Lean e urla un “Noo!” disperato quando Yuri muore; in Caro diario Nanni va al cinema a vedere Henry, pioggia di sangue (Henry: Portrait of a Serial Killer, 1986) perché l’Italia d’estate non propone film migliori, dichiara che Flashdance (1983) gli ha cambiato la vita e si entusiasma per Silvana Mangano che balla in Anna (1952) di Lattuada, vista alla televisione in un bar.
Un artista che come lui si sente (anche per motivi professionali) parte della cultura popolare, non può non parlare della televisione. Ovviamente, alla sua maniera. La televisione è una presenza costante nei lavori di Moretti. Spesso è inserita per mostrare film (come Il dottor Zivago), in altri casi per parlare della televisione stessa, in altri ancora è un mezzo per connettersi con l’attualità politica e commentarla (Nanni e D’Alema in Aprile, Silvio Orlando e Berlusconi in Il caimano). È in Caro diario, tuttavia, che la televisione assume un ruolo pervasivo, visto che il secondo episodio Isole è dedicato in buona parte a questo aspetto. Qui l’amico di Nanni, Gerardo, uno studioso di Joyce d’accordo con Hans Magnus Enzensberger (secondo cui la televisione trasmette il nulla), prima confessa un “digiuno televisivo” trentennale, poi – dopo aver assistito incidentalmente ad alcuni programmi – diventa teledipendente e infine giunge a rinnegare Enzensberger. La televisione è insomma una droga che influenza indiscriminatamente il comportamento della società, contribuendo a creare una cultura di massa molto più forte e pervasiva della cultura elitaria degli studiosi, anche perché è onnipresente: nelle case, nei bar, sulle navi. Una volta entrati nel sistema, si viene risucchiati come Gerardo in un mondo di miti e finzione, illudendosi d’essere nella realtà, e non se ne esce più. Di queste similitudini fra l’ottica morettiana sulla televisione e quella di Pasolini si riparlerà più avanti. Tuttavia, prima è necessario accennare altre due peculiarità di Moretti: la sua “ossessione” per la famiglia e la sua capacità di immaginare il futuro.
I film del cineasta romano sono disseminati di riferimenti alla famiglia. Nei suoi primi film rappresenta il giovane che vuole uscire dalla famiglia (come in Io sono un autarchico), senza riuscire a staccarsene, mentre nei lavori successivi, ormai giunto all’età adulta, affronta il tema dal punto di vista del genitore. Così, per esempio, in Caro diario analizza la famiglia italiana degli anni Novanta, tipicamente dominata dal figlio unico, e in Aprile, (dove racconta l’attesa e la nascita di suo figlio), è un padre apprensivo e nevrotico. In questa successione di film è ravvisabile un filo conduttore: la fine della famiglia patriarcale/maschile tradizionale, considerabile come una forma di schiavitù (anche nel nome: familia in latino indica la famiglia ma anche i servi) e di sottomissione della donna. Moretti non sembra esprimere critiche alla nuova struttura familiare che si sta delineando, né propone alternative. Si limita a un’analisi, ora ironica, ora tragica. Forse perché sente anche su di sé quanto è difficile essere genitori.
Parlando della capacità che ha Moretti di anticipare il futuro, Bonsaver (2001: 158-183) definisce il regista romano “la Cassandra della sinistra italiana”. Non si tratta di un paragone campato in aria: i casi in cui Moretti ha “indovinato” quello che stava per succedere sono troppi per essere semplici coincidenze. Ecco i fatti. Due mesi dopo l’uscita di Palombella rossa (1989, film in cui un politico comunista è assalito dai dubbi), crolla il Muro di Berlino e il Pci entra in una lunga crisi d’identità. Due anni dopo, nel 1991, Moretti impersona un ministro corrotto in Il portaborse di Luchetti, film che la sua casa di produzione ha anche co-prodotto; passano pochi mesi e all’inizio del 1992 scoppia lo scandalo di Tangentopoli, che porta alla fine della cosiddetta “prima repubblica”. In Aprile, girato qualche anno più tardi, è esplicita la coincidenza fra la nascita del suo primogenito e la prima, effimera vittoria della sinistra alle elezioni nazionali. Uscendo dall’ambito della sinistra, in Il caimano (2006) Moretti/Berlusconi, giudicato colpevole dopo un processo, invita i suoi sostenitori a reagire con ogni mezzo, scatenando la violenza. A distanza di cinque anni, nel 2011 Berlusconi è sotto processo, in lotta contro la magistratura e sostiene che in Italia c’è un clima “da guerra civile”. A cosa si deve questa preveggenza? Moretti non è un futurologo, né tantomeno un indovino. È semmai un artista/intellettuale che fa parte della società, sa “tastarne il polso” e sentirne gli umori più efficacemente dei partiti che critica, esercitando il suo ruolo di intellettuale politicamente impegnato. In termini pasoliniani, cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, coordina fatti anche lontani, e ne trae le conclusioni. Analogamente alla sacerdotessa della mitologia greca, però, non viene ascoltato: le sue analisi risultano poco piacevoli per il potere costituito e la sua voce solitaria risuona stonata.

L'Idroscalo di Ostia in "Caro diario" (1993) di Nanni Moretti
L’Idroscalo di Ostia in “Caro diario” (1993) di Nanni Moretti

Moretti e l’omaggio a Pasolini in Caro Diario

Caro Diario è il film di Moretti più apertamente pasoliniano. Si divide in tre “capitoli”. Nel primo, In Vespa, Moretti attraversa sulla sua Vespa una Roma deserta, va al cinema, parla con passanti solitari, dichiara il suo amore per il ballo, si unisce a un gruppo di cantanti e visita il luogo dove fu ucciso Pasolini. Nel secondo capitolo, Isole, Nanni va alle Eolie insieme a Gerardo, uno studioso di Joyce che non ha guardato la TV per trent’anni e che all’improvviso diventa teledipendente. Infine, il capitolo conclusivo Medici è un episodio autobiografico/documentaristico sul cancro che ha colpito Moretti, e contiene immagini reali della sua chemioterapia. L’omaggio più evidente reso da Moretti a Pasolini è la lunga sequenza di cinque minuti che conclude l’episodio In Vespa, in cui Nanni visita il luogo dove fu ucciso Pasolini. Per capirne il significato, occorre analizzarla dal punto di vista cinematografico.
La sequenza si apre con un breve primo piano di una mano che fa scorrere alcuni giornali dell’epoca sui quali è riportata la notizia della morte violenta di Pasolini. Intanto, la voce extradiegetica di Moretti che si sovrappone alle note del Köln Concert di Keith Jarrett (registrato nel 1975 – l‟anno della morte di Pasolini – che accompagnerà tutta la scena per oltre cinque minuti) dice: “Non so perché, ma non ero mai stato nel posto dove è stato ammazzato Pasolini” e fa da ponte sonoro con la sequenza successiva. Poi restano solo musica e immagini che legano la volontà al fatto reale.
In seguito, per quaranta secondi scorrono immagini riprese da un mezzo di trasporto in movimento, con una telecamera a mano ad altezza occhi, come se fosse la soggettiva dell’attore- regista in Vespa che si avvicina alla meta. Si vedono scorrere un pezzo di guard rail, un terreno incolto e sabbioso, auto parcheggiate, l’orizzonte inclinato a enfatizzare l’idea di movimento, il cielo incolore, inespressivo. Poi, finalmente, qualche persona, ombrelloni. Appena diventa chiaro che quel luogo è l’Idroscalo di Ostia, l’immagine stacca su Nanni Moretti a bordo della Vespa sulla quotidianità di un rettilineo delimitato da un muro, un guard rail, carrelli per la raccolta dei rifiuti. Siamo sulla strada che costeggia il luogo appena visto.
A questo punto, comincia un lungo piano-sequenza di tre minuti e mezzo, caratterizzato da un tracking di Nanni in controluce che in un pomeriggio d’agosto percorre questo rettilineo fino in fondo e, dopo aver girato intorno a una rotonda, lo ripercorre in direzione opposta. Appena il sole è di spalle, si scopre che il cielo è azzurro, ma non terso, insomma è una giornata estiva qualsiasi. Nanni costeggia costruzioni sciatte, bidoni della spazzatura, macchine e camion parcheggiati male, incrocia rari ciclisti e passanti in costume da bagno. Poi s’allontana dalla telecamera, che lascia più spazio all’ambiente circostante: nell’avvicinarsi alla meta, il rettilineo è delimitato da un muro, da alcuni capannoni, dal guard rail, da sterpaglie e immondizia buttata sul ciglio della strada. Il volume e il ritmo della musica crescono. Il suono del pianoforte, inizialmente lieve, ora diventa dominante, anticipando l’arrivo. Nanni rallenta e la telecamera si riavvicina, riportandolo in primo piano. Accosta, scende dalla moto e guarda oltre una recinzione sulla destra.
Dopo uno stacco, comincia una breve sequenza di venti secondi. Fra le maglie della rete, sfocate in primissimo piano, la telecamera mette a fuoco un prato incolto e inquadra in campo medio una porta di calcio e, lì accanto, una piccola costruzione informe su cui si sposta con uno zoom in (il primo e unico di una scena sempre a fuoco fisso), rivelando che si tratta di una strana scultura non identificabile, circondata da erbacce e sulla quale sembrano appoggiarsi i pali di una recinzione crollata. Eccolo, il posto dove è stato ucciso Pasolini.
Un altro stacco dà l’avvio ad una seconda sequenza brevissima, sei secondi in tutto. Ora il monumento è in primo piano, inquadrato in controcampo. Si tratta di un rudere anonimo, con l’armatura di ferro che emerge in più punti dal cemento sgretolato. Subito dietro, la porta di calcio, arrugginita. La musica si attenua.
Come omaggio, appare decisamente strano. Queste immagini dell’Idroscalo ostiense non hanno nulla di piacevole: non i luoghi, non la luce piatta, non le inquadrature piene degli errori tipici del cineoperatore dilettante (orizzonte spesso a metà, controluce sovraesposto, soggetto al centro dell’immagine, inquadratura sempre ad altezza occhi). Le immagini del monumento in degrado, infine, occupano solo venticinque secondi, un flash che contrasta con tutto l’apparato costruito fino a quel punto (se ne riparlerà fra poco). Fotograficamente parlando, un pugno nell’occhio. Per capirne il senso e la raffinatezza, bisogna tornare alle Osservazioni sul piano-sequenza, scoprendo che in realtà l’omaggio a Pasolini è proprio questo: l’aver messo su pellicola quello che lui ha scritto nel suo saggio. Le immagini sembrano riprese da un osservatore qualunque, e riprendono il luogo dove (nel giorno della commemorazione dei defunti) è morto l’intellettuale e regista che ha definito la morte come un montaggio della vita, assumendo un’evidente e fortissima valenza simbolica, se non addirittura meta-simbolica. Come si può interpretare quindi il fatto che Moretti dedichi solo venticinque/trenta secondi alle immagini di questo luogo? Si tratta di pudore davanti alla morte? Oppure si tratta della resa cinematografica del “fulmineo montaggio” dei piani-sequenza che pone fine alla vita, ma non alle idee (infatti, dopo la seconda inquadratura del monumento, c’è uno stacco sul titolo dell’episodio successivo, ma la musica collega le due parti, e – come vedremo – le idee pasoliniane sono fortemente presenti anche in Isole)? O invece si tratta di uno stratagemma per rivisitare le periferie in cui Pasolini aveva girato i suoi primi film? Probabilmente c’è del vero in tutte e tre le ipotesi.
Ma l’omaggio a Pasolini va oltre. La sequenza appena descritta è il culmine di un crescendo che occupa tutto il primo episodio, che Moretti ha disseminato di riferimenti. Infatti, vediamo Nanni girovagare fra case romane, alcune delle quali ricordano diverse inquadrature di Mamma Roma, e fra quartieri satellite, come Spinaceto, propri della suburbia pasoliniana. La sequenza con il gruppo di danzatori, invece, ricorda i ragazzi che ballano fuori dal bar Las Vegas in Uccellacci e uccellini (simbolo della “omologazione culturale consumistica sulle nuove generazioni”). Poco oltre, nella conversazione con un abitante di Casal Palocco, alla periferia di Roma (un quartiere in cui sente odore di videocassette e pizze già pronte, ancora un simbolo di omologazione e conformismo, insomma un’ulteriore critica al consumismo), Nanni gli contesta la decisione di essersi trasferito lì nel 1962, quando “Roma era bellissima”. I due anni citati in questa sequenza (1961 e 1962) coincidono con i primi due film di Pasolini, quelli più vicini al neorealismo, Accattone e Mamma Roma, che mostrano con crudezza la vita dei sottoproletari della periferia, in contrasto con i quartieri borghesi della Roma-bene. È però nella sequenza in cui Nanni va al cinema a vedere Henry, pioggia di sangue (ossia quella immediatamente precedente al “pellegrinaggio” all’Idroscalo appena analizzato) che il collegamento a Pasolini diventa evidente: gli spargimenti di sangue nel film si associano alla violenza con cui Pasolini fu ucciso e ricordano che anche lui fu vittima di un film splatter (non dimentichiamo l’analogia morte-film). Infine, anche la sequenza comica in cui Moretti legge al critico (che piange disperato per il rimorso) la recensione assurda e incomprensibile da lui scritta su Henry… e su un film coreano, è un richiamo a Pasolini, alle sue idee sulla funzione degli intellettuali ripresa da Gramsci e sulla fine del ruolo dell’intellettuale.
Come già accennato in apertura di paragrafo, nell’episodio successivo Isole si parla diffusamente della televisione, un argomento su cui (lo ricordiamo) Pasolini si espresse chiaramente: la televisione, disse, è uno strumento di comunicazione che pensa per i telespettatori, ne conforma abitudini e opinioni, li esclude dalla partecipazione politica, assimila le periferie. Gerardo, l’amico teledipendente di Nanni, diventa l’archetipo del telespettatore ipotizzato da Pasolini; il fatto che un intellettuale subisca in maniera così eclatante l’influsso della televisione fa capire come non ci sia scampo per il telespettatore medio.
Più nascosto, un riferimento a Pasolini è presente anche nel terzo capitolo Medici. Qui le immagini reali di Moretti durante la chemioterapia (un home movie le cui riprese sembrano di nuovo quelle di uno spettatore qualunque) e la ricostruzione della sua esperienza con la malattia rendono palese l’idea che i mali morali da cui è afflitta la società sono reali e si evolvono in malattia fisica. Quest’ultima permette a Moretti di mostrare un’altra faccia del potere, rappresentato in questo caso dai medici e dai farmaci. Il potere non solo è omologante, come nel caso della televisione, ma può essere perfino fisicamente distruttivo. Infatti i medici, pur di mantenere il proprio potere sui pazienti non solo fanno attendere i malati – “il principe dei dermatologi” non riceve nuovi pazienti prima di tre mesi – ma non ammettono di avere dubbi in merito ai sintomi o alla propria capacità professionale, con la conseguenza di dare al paziente istruzioni fuorvianti, contrastanti e pericolose. La quantità di medicinali e rimedi prescritti da diversi “luminari” a Nanni, senza peraltro risolvere il suo problema, è un esempio di come indurre il paziente a diventare un consumatore di farmaci e crearne una dipendenza non solo mentale, ma anche fisica. Non è un caso che Nanni trovi la chiave per la sua guarigione nel rivolgersi a un sistema alternativo, ossia la medicina cinese, che sa ascoltare le persone oltre che parlare loro, ma soprattutto che ammette i propri limiti mandando il paziente a fare ulteriori accertamenti altrove. Se conformarsi acriticamente alle diagnosi di medici insensibili ai bisogni del paziente e semplicemente attaccati alla propria fama oltre che inutile diventa dannoso, è solo uscendo dal sistema che ci si salva e ci si purifica: nel finale Moretti tira le somme di quello che ha imparato: da una parte mostra la montagna di inutili medicine prescrittegli, dall’altra mette in evidente contrasto il semplice gesto del bere un bicchier d’acqua la mattina, l’unico vero toccasana sperimentato, simbolo di purificazione fisica e morale.
Concludendo, s’è visto come Caro diario sia impregnato di riferimenti cinematografici, simbolici e teorici a Pasolini, trattati in modo estremamente originale, e come Moretti si rifaccia alle idee dell’intellettuale friulano, per interrogare se stesso e lo spettatore su quale dev’essere il ruolo dell’intellettuale nella società degli anni Novanta. In altri termini, Moretti usa i messaggi pasoliniani per esprimere a modo suo, con ironia, le proprie critiche alla società, ricorrendo anzitutto all’autocritica: lui stesso infatti s’inserisce nel gruppo dei consumatori di film e di medicinali, diventa un potenziale acquirente di case, adora veder ballare gli altri, confessa che un film non proprio “impegnato” (Flashdance) gli ha cambiato la vita e accetta di chiedere ai turisti americani notizie sulle prossime puntate di Beautiful. Inoltre, si mostra al suoi pubblico ingenuo, quasi infantile, “un poco scemo” (come lo definisce Jennifer Beals). Insomma, diversamente da Pasolini si cala al livello dei suoi interlocutori, se non più in basso. Così facendo, risulta più accettabile nel suo ruolo di intellettuale. Non si presenta come castigatore o come proclamatore della “Verità”, ma come uno fra i tanti, e inoltre si diverte ed è libero di fare quello che vuole, senza costrizioni: scorrazza in Vespa per Roma, crea dialoghi surreali senza preoccuparsi di essere preso per matto. In questo modo conferma come anche l’intellettuale ben inserito nella società, per poter svolgere pienamente il suo ruolo di educatore-persuasore, deve insegnare a guardare oltre l’apparenza e a usare la capacità di critica, senza però imporre le proprie idee. Per riuscire nell’intento, deve poter dimostrare attraverso l’esempio che aderire ciecamente alla cultura di massa porta all’annullamento sia morale che fisico delle persone; viceversa, restare una voce fuori dal coro (come nella sequenza in cui canta orrendamente), andare d’accordo con una minoranza di persone ed essere soli nelle proprie battaglie (come Nanni è solo a Roma ad agosto), evitare di conformarsi al sistema, non solo può essere divertente, ma può letteralmente salvare la vita. Ed è proprio l’esempio che Moretti riesce a dare in Caro Diario, dove non interpreta più Michele Apicella l’intellettuale in crisi, ma semplicemente se stesso, cioè “uno splendido quarantenne”.

Conclusione: Pasolini, Moretti e la prossima generazione

Benché Pasolini e Moretti presentino grandi differenze generazionali, biografiche, stilistiche, è possibile individuare con precisione numerosi punti comuni fra loro. In particolare entrambi, accomunati da un’idea gramsciana dell’intellettuale, hanno svolto lucide analisi della situazione politica e sociale del loro tempo, prestando attenzione all’utilizzo del linguaggio, sperimentando modi di comunicazione innovativi, esprimendo senza esitazioni le loro critiche al potere e all’appiattimento culturale della società, dimostrando di saper precorrere i tempi nonché (Pasolini come osservatore, Moretti come parte integrante) di conoscere molto bene gli umori della società. Si può concludere che Moretti, con i suoi film capaci di parlare a un pubblico più vasto e con la sua autoironia, riprende in chiave post-moderna il pensiero pasoliniano, attualizzandolo e rendendolo più accessibile alle nuove generazioni.
Ma oggi bisogna spingersi oltre. Se la società del boom analizzata da Pasolini ha conosciuto rapidissime trasformazioni, quella postmoderna studiata finora da Moretti sta venendo sostituita dalla “generazione elettronica” e precaria. Il linguaggio, le modalità espressive e i canali di comunicazione si stanno modificando rapidamente, i videogiochi stanno cambiando il modo di pensare, internet e i social networks stanno cambiando radicalmente i mass-media tradizionali, spostandoli da una modalità comunicativa unidirezionale a una interattiva. Internet è diventato il baluardo tanto dei fondamentalisti quanto dei fautori della democrazia più convinti, un medium in così rapida e capillare diffusione che il potere stesso fatica a comprendere e a contenere. In Italia (ma non solo) un multiforme popolo di giovani lavoratori precari e di immigrati s’ingrossa e assume un peso notevole, mescolando le proprie rivendicazioni alle proteste contro la “casta” politica ultraprivilegiata. Mai come oggi si rivela necessaria la capacità di capire e raccontare quale direzione sta imboccando questa società frammentata, priva di veri punti di riferimento. Sono tante le sfide per la prossima generazione di film di Nanni Moretti e dei nuovi registi-intellettuali.

 

Un doveroso ringraziamento va alla Prof.ssa Luciana d’Arcangeli per il suo prezioso e instancabile incoraggiamento e supporto durante la ricerca e la stesura del presente lavoro [s.b.]