L’inferno di Pier Paolo Pasolini, di Francesca Santucci

L’inferno di Pier Paolo Pasolini

di Francesca Santucci
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Ingiuriato dalla furia omicida, con il volto tumefatto per i colpi ricevuti, l’orecchio sinistro strappato via, quello destro tagliato a metà, sul corpo i segni visibili dei pneumatici di quella’auto che barbaramente ci era ripassata sopra più volte: aveva 53 anni Pier Paolo Pasolini quando, come stabilì la magistratura con frettoloso e lacunoso processo, morì assassinato per mano di un “ragazzo di vita”, Giuseppe Pelosi.
Aveva scritto: Attratto da una vita proletaria…è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta, la sua natura, non la sua coscienza.
Affascinato dal vitalismo dei sottoproletari romani, dalla carica umana che, pur immersi nell’abbrutimento, i suburbi conservavano, da quella Roma marginale che aveva scoperto nella lunga frequentazione del popolo di periferia, Pasolini non mancò di denunciarne lo squallore, lasciandoci, in Ragazzi di vita, romanzo del ’55, e in Una vita violenta, del ’59, un fedele ritratto dell’epoca.
In chiave naturalistica, che spesso induce a pensare al realismo ottocentesco e a Verga, attraverso la vita di un gruppo di ragazzi dei suburbi, il loro vagabondaggio, gli atti di teppismo, la noia e le avventure minime, indagò sulla diversità sociale dei quartieri poveri di Roma, visti come luogo primordiale, quasi stato di natura, in qualche modo puro ed incontaminato come il mondo friulano contadino nel quale affondava le sue radici.
Contrariamente ad Una vita violenta, dove l’attenzione di Pasolini fu concentrata sul personaggio di Tommaso, eroe positivo che prendeva coscienza, qui protagonista fu la varia eppure simile umanità dei borgatari.
“Dormì alla chiarina”, “tenesse la cica”, “annasse a ripone a Caracalla”, “me prenne er mammatrone”: così si esprimevano quei ragazzi di borgata, con una parlata a metà tra il dialetto e il gergo della malavita, e si chiamavano Riccetto, Rocco, Alvaro, Alduccio, in fondo interscambiabili fra loro, accomunati tutti dallo stesso destino dal quale si sarebbe salvato solo Riccetto, scegliendo d’integrarsi nella società dei consumi attraverso il lavoro.
L’amore di Pasolini per il mondo descritto non lo allontanò mai dalla lucida visione della tragedia insita nel destino dei borgatari che, pur aderendo ai nuovi valori della società, esplosi col boom economico degli anni ‘60, soggiogati dal fascino del denaro e dei beni di consumo, ne restavano esclusi e subalterni.
Quando Ragazzi di vita fu pubblicato Pasolini subì un processo per oscenità, troppo crudo era apparso l’argomento trattato, sottolineato anche, dal punto di vista linguistico, dalla coloritura dialettale; Moravia, invece, lo definì: il romanzo che con scandalo e forza di denuncia rivelò la realtà “diversa” del sottoproletariato romano.
Nonostante le contraddizioni che possono essere rilevate, vale la pena rileggerlo perché voce fuori dal coro, nel panorama letterario di quegli anni, di un autore scomodo, che pagò di persona l’adesione a quel mondo di cui era stato appassionato interprete.
E vale la pena rileggere anche Una vita violenta che, insieme a Ragazzi di vita, compone il “dittico delle borgate romane”, poiché l’autore pure vi descrive la drammatica vita di quegli anni del sottoproletariato romano di borgata, periferia della grande città, emarginata dalle ingiustizie sociali, un mondo dal quale era attratto per la spontanea ingenuità, per la purezza dei valori contrapposti a quelli borghesi, salvo poi ricredersi quando, subendo il fascino del consumismo, quei sottoproletari, descritti con tanta partecipazione, s’imborghesirono.

Come in Ragazzi di vita anche in Una vita violenta i protagonisti sono loro, i ragazzi di borgata, uno in particolare, Tommaso, seguito da Pasolini passo passo, con la descrizione della malattia, l’aggregazione agli sbandati, la militanza comunista, fino all’alluvione del Tevere e allo slancio generoso, incompreso dagli amici di un tempo che lo deridono con la frase: San Tommaso, er santo dell’alluvionati.
In questo romanzo, anche storia di una presa di coscienza proletaria, che però avviene in modo quasi incosciente, il protagonista è, appunto Tommaso Puzzilli, un giovane di Pietralata, uno sbandato che frequenta ragazzi sbandati, ragazzi di vita appartenenti al suo stesso ambiente: la borgata romana.
Eppure Tommaso è diverso dagli altri, in lui si agitano dei fermenti che lasciano intravedere una diversa coscienza, un animo generoso e un desiderio di riscatto.
Nello squallore del suo ambiente caratteristiche comuni sono il vizio e l’abbrutimento, in un clima di prepotenza, dove la comunicazione avviene solo attraverso la violenza verbale della parlata romanesca, tanto usata dall’autore che, con l’adesione al dialetto, intendeva registrare dal vero la vita difficile di quei ragazzi ed esprimere la sua adesione viscerale al sottoproletariato romano visto come mondo “diverso” da quello borghese.
Ammalatosi di tubercolosi Tommaso guarisce, però il suo fisico resta segnato dalla malattia; da allora in poi la sua vita si svolgerà all’insegna di una violenza che può essere interpretata come esigenza di affermare la vita contro la precarietà dell’esistenza e contro la minaccia sempre incombente della fine, attraversando episodi da teppista ed anche aggregandosi a bande neofasciste. Infine prenderà coscienza e diventerà militante comunista, e quando la tempesta improvvisa allagherà le case di borgata, abitate dagli infelici come lui, nonostante la salute precaria non esiterà a partecipare alle azioni di soccorso, in uno slancio di generosità che lo redimeranno agli occhi del mondo e di se stesso.
L’indomani il destino di Tommaso sarà già segnato: tra i colpi di tosse e gli sputi di sangue realizzerà il rinnovato vigore del suo male e nella battuta Me sto a morì sarà già insita la consapevolezza dell’imminente fine.
Fino in fondo Tommaso conserverà la violenza verbale, concludendo anche in modo tragico la sua vita violenta :

Ma annatevene! – disse Tommaso – Invece che stamme a fa compagnia a me, annate a rompeve le corna de fora, che oggi è domenica! … Come diventò notte, si sentì peggio, sempre di più: gli prese un nuovo intaso di sangue, tossì, tossì, senza più rifiatare, e addio Tommaso.

Pasolini scoprì ed osservò con sentita partecipazione il mondo del sottoproletariato di borgata, cercando sempre di metterne in luce il valore umano ed il contributo all’evoluzione di tutta la comunità, ai margini della quale la pongono solo le circostanze e le ingiustizie sociali.

Era il 2 novembre del 1975 quando, tra baracche e rifiuti, all’idroscalo di Ostia venne ritrovato il corpo senza vita di Pasolini, contro il quale l’aggressore si era scagliato con inaudita violenza, assassinato in circostanze oscure, ancora oggi non chiarite, ma sicuramente legate al mondo di cui tanto aveva parlato e scritto con dolente e appassionata partecipazione, quello dei ragazzi di vita.
Artista versatile, poeta, sperimentatore di letteratura, di cinema, perennemente circondato da un alone negativo, in vita perseguitato da censori e magistrati (ogni anno quattro volte in tribunale per oltraggi al comune senso del pudore e reati a sfondo sessuale dai quali puntualmente assolto, per un totale di 33 processi) scomodo, critico anche verso quella sinistra alla quale apparteneva come quando, nel ’68, rischiando l’impopolarità, in piena difesa del punta di vista del sottoproletariato, si pose contro gli studenti figli di papà borghesi e piccoli borghesi, a favore dei poliziotti di origine proletaria, ma anche più cristiano dei cristiani schierato com’era in totale adesione dei più umili, più volte dichiarò di voler restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirli.
Resta incomprensibile come abbiano potuto colpirlo proprio coloro dei quali si era, con tanta partecipazione, eletto interprete e come la magistratura ancora non abbia sciolto l’enigma della sua morte.