L’alterità come replica dell’identità. La Divina Mimesis di PPP, di Neil Novello

L’alterità come replica dell’identità.
La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini

di Neil Novello
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È chiaro fino dal principio degli anni ’60 che tra le terzine dantesche di Progetto di opere future, sezione penultima di Poesia in forma di rosa (1964), annunciando una «buriana» sull’Inferno, Pier Paolo Pasolini pensa alla prima cantica di Dante come a un archetipo per la riscrittura in prosa. È inscrive nel «progetto» il termine dell’alterità. Letterario, a leggere nel disegno la forma attualizzata di un libro parallelo, e non finito, dell’Inferno. Autobiografico, a pensare di inscriversi nel testo in forma di doppio personaggio. Storiografico, perseguendo l’alterità nella figura dell’analogia ravvisata tra il Medioevo e il neocapitalismo, quest’ultimo interpretato quale replica revisionata del tempo dantesco. Pertanto il Medioevo di Dante reagisce con lo sfondo storico del testo rigenerandosi in catastrofe epocale. O meglio, l’alterità storica funziona nella Divina Mimesis come un vero e proprio rovesciamento: il neocapitalismo è un Medioevo moderno o nuovo Medioevo. Nello stile della collazione storiografica, a cercare l’esempio, un’indicazione ideale potrebbe trovarsi nelle «civiltà a paragone» descritte da Arnold J. Toynbee, sebbene le pasolianiane appaiano mediate dall’esperienza letteraria.
A una prefazione al veleno («do alle stampe oggi queste pagine come un ‘documento’, ma anche per fare dispetto ai miei ‘nemici’: infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all’Inferno») seguono un Canto I e un II, appunti e frammenti per la scrittura di un Canto III, appunti e frammenti per un IV diviso in otto brevi paragrafi, quindi appunti e frammenti per un Canto VII diviso in cinque paragrafi, e infine, quasi in funzione di appendice critica paratestuale, una Nota N. 1, una Nota N. 2, e una finale Nota dell’Editore.
Prima dell’Iconografia ingiallita, composta da un repertorio di venticinque fotografie da leggersi alla maniera di un «poema fotografico» seguite da un «Piccolo allegato stravagante», «excerptum» critico sull’antologia Letteratura italiana: Otto-Novecento di Gianfranco Contini, c’è un altro frammento di appunti per il Canto VIII.
Al «poema fotografico» è da attribuire un’altra variante dell’alterità: è termine d’analisi nella dialettica ermeneutica tra il testo scritto e il testo per immagini, e configura «l’altro modo» di leggere la prosa. A partire dalle immagini, e tornando verso il testo scritto, secondo una dialettica di lettura incrociata. Pasolini-Virgilio a Pasolini-Dante: «Guarda le loro fotografie ormai ingiallite». E rinvia a un «gruppo di partigiani» in cammino per una via di montagna, a simbolo degli anni della Resistenza.
Il doppio Pasolini-Dante e Pasolini-Virgilio sembra non sottomettersi al senso letterale del principio d’alterità. O meglio, la «dissociazione dell’io» appare da subito quale esito di uno scorporo formale, cosicché il momento dialogico del «parlato» identifica più che un dialogo reale tra «diversità», la soluzione rappresentativa di un monologo tenuto dinanzi allo specchio. È una «fictio», questa fondata sulla mistificazione dell’elemento dialogico precedente quella costruita sulla postumità dell’opera. Pasolini-editore finge d’ereditare la Divina Mimesis: rispettando l’autore, limita il suo compito alla cura di una edizione diplomatica. Si vedrà, avanti nella lettura, un altro e diverso esempio di mistificazione dell’alterità.
Dinanzi a Pasolini-Virgilio, Pasolini-Dante parla di sé a sé: e parla degli anni ’40 friulani (il paradiso), degli anni ’50 e la morte delle ideologie (il purgatorio), degli anni ’60 e del neocapitalismo (l’inferno). Nondimeno, e in coincidenza con il Canto I, di qua dello sdoppiamento del personaggio autoriale inscritto nel testo, il narratore autobiografico incontra la Lonza, il Leone e la Lupa. O meglio, s’incontra in triplice forma felina, e tratteggia l’autoritratto nell’immagine delle fiere infernali. La Lonza: «eccola lì, uscita dai ripostigli comuni della mia anima (che accanitamente continuava a pensare, per difendersi, per sopravvivere – per tornare indietro!), eccola lì, la bestia agile e senza scrupoli […]. Così, la ‘Lonza’ (in cui non ebbi, subito, difficoltà a riconoscermi)». Il Leone: «Dal suo essere sonno e ferocia, egoismo e fame rabbiosa, il ‘Leone’ traeva un’ispirazione a vivere che lo distingueva, con violenza addirittura brutale, dal mondo esterno. Che lo ospitava quasi tremando. L’idea di sé non ha ragione: e quando si esprime distrugge la realtà, perché la divora. […] Sia pure parzialmente, anche in quel ‘Leone’, come in uno sproporzionato segno premonitore, io mi riconobbi». La Lupa: «Ma dovevo riconoscermi ancora in qualcosa di ben peggio. […] venne fuori una ‘Lupa’, che si affiancò alle altre due bestie. I suoi connotati erano sfigurati da una mistica magrezza, la bocca assottigliata dai baci e dalle opere impure, lo zigomo e la mascella allontanati tra loro; lo zigomo in alto, contro l’occhio, la mascella in basso, sulla pelle inaridita del collo».
Una terna di duplicazioni per tre forme d’alterità: dell’anima (la Lonza), dell’azione (il Leone), del corpo (la Lupa). E tre forme di proiezione e di riflesso: della Lonza, l’anima si rappresenta nell’«altezza morale» e nell’«onestà intellettuale»; del Leone, l’azione è «ispirazione a vivere» e a «saper divorare»; della Lupa, il corpo s’identifica nella «bocca assottigliata dai baci», nello «zigomo e la mascella allontanati tra loro».
All’incontro dell’alterità felina, Pasolini-Dante disegna un autoritratto mimetico: dalla natura della propria anima, alle strategie dello stare al mondo, fino alla descrizione mimetica del proprio corpo
Di fronte alle fiere è al cospetto di sé: nel riconoscersi, al contempo, quale triplice proiezione, Pasolini-Dante afferma il valore «naturale» dell’identità, attribuendo alle proiezioni qualcosa in cui rivedersi e qualcosa da cui fuggire. D’altra parte è transizione necessaria: il doppio autentico, la figura in cui realmente potrà riconoscersi è alle sue spalle, non davanti ai suoi occhi: non è il futuro (in cui non si riconosce), è il passato. E dal passato, nella forma dell’apparizione vissuta come salvezza, ecco Pasolini-Virgilio, personaggio-altro-e-uguale-a-sé farglisi dinanzi: «Sono settentrionale: in Friuli è nata mia madre, in Romagna mio padre; vissi a lungo a Bologna, e in altre città e paesi della pianura padana – come è scritto nel risvolto di quei libri degli Anni Cinquanta, che ingialliscono con me…». Dopo l’autoritratto, ecco scritta l’autobiografia per interposto personaggio-altro-e-uguale-a-sé. Alterità felina come autoritratto allo specchio, autobiografia come risarcimento dell’autoritratto: dalla ricostruzione dell’identità generale (Lonza, Leone, Lupa) alla ricostruzione dell’identità intellettuale (Virgilio).
Alterità come transizione dall’autoritratto all’autobiografia: con l’attacco della Divina Mimesis, Pasolini sembra adeguare un tale transito trascorrendo dall’elemento felino a quello umano-poetico. Che se implica un’indiretta considerazione nel passaggio dallo stadio animale alla natura umana, associa all’operazione il termine del darwinismo per non dire del niccianesimo. Alterità di Pasolini-Virgilio come termine d’evoluzione. E così identifica nella terna bestiale una specie di stadio complessivo dell’Es (e del Vizio), e nell’elemento poetico (Pasolini-Virgilio) l’incontro definitivo con l’Ego (e con la Virtù).
Una dissociazione tuttavia apparente.
Pasolini-Virgilio appare a Pasolini-Dante, e porta la salvezza, confermando una sua esistenza aprioristica nel mondo. È il padre sempre vissuto, non già l’esito di una scissione alla maniera di Petrolio. Nel romanzo Carlo di Polis assiste alla nascita di Carlo di Tetis dalle viscere del proprio corpo. Nasce un figlio (corpo da corpo) ma vive come fratello (corpo gemello), in quanto «concreta rappresentazione», reale porzione di sé raddoppiata.
La Divina Mimesis adatta il tema del doppio alla variante dell’alterità: in essa, la differenza tra le parti è forma possibile di analogia. Ed è analogia.
Prima che tale figura giunga a consistere nel riconoscimento dell’altro come simile, Pasolini-Dante sconta il debito dell’acquisizione. La fuga dall’alterità felina è l’inconscia rivelazione della parte immorale di sé, la raffigurazione del Vizio identifica invece l’immagine impaurita dell’autore che torna indietro sui propri passi. E riconosce la causa dell’ostruzione simbolica nell’immoralità (simbolica) delle fiere, di sé. Nel retrocedere, fuggendo dalla «Lonza», cerca già una via morale di salvezza. E trova un altro sé pronto ad accoglierlo: un altro che fa unità al maggiore grado, non già di potenza, ma di umiliazione:

Ah, […] hai ragione, sono un’ombra, una sopravvivenza… Sto ingiallendo pian piano negli Anni Cinquanta del mondo, o, per meglio dire, d’Italia….

È nel riconoscersi (Pasolini-Dante al cospetto di Pasolini-Virgilio), attraverso il primato della poesia, Pasolini-Dante crea le condizioni di partenza per l’esistenza di nuove forme d’alterità.
Le proiezioni fittizie in Gramsci, Rimbaud e Charlot, e poi in Thomas, sembrano ascriversi ai temi dell’elogio e dell’ironia. Ma anzitutto, Gramsci, Rimbaud, Charlot e Thomas sono ipotesi d’alterità: alterità immaginate come possibili, eventuali forme della propria forma, estranee, e solo spettri in potenza riguardo alla figura di Virgilio.
Pasolini-Charlot. Nel tono canzonatorio, accogliendo la forma della messa in parodia di se stesso mediante la postulata proiezione nel celebre autore di Luci della città , Pasolini-Dante identifica l’alternativa «extravagante», il nucleo di una drammatizzazione come momento dell’autoparodia. D’altra parte, la venatura tragica della Divina Mimesis (nella voce di Pasolini-Dante) è innervata all’elemento ironico e autoironico (nella voce di Pasolini-Virgilio). E coesistono sotto forma di mutua interrelazione: l’estensione a regola esemplare dell’ironia di Pasolini-Virgilio è Pasolini-Charlot.
Eppure, tale solitaria variabile è visibilmente sostenuta da un dittico, quello costituito dalla coppia Gramsci-Rimbaud, l’intellettuale marxista e il poeta «maudit» della Saison, che con immagine felice rappresentano non solo i modelli, ma anche i termini di un riconoscimento proiettivo d’ordine affettivo.
D’altro canto, l’intento autoparodico di Pasolini-Charlot è dissimulazione della logica oppositiva con cui sono accostati l’intellettuale e il poeta all’autore e attore di cinema. Nel genere scherzoso del «poteva essere», l’alterità di un Pasolini-Charlot controbilancia la più concreta e reale eventualità di un Pasolini-Gramsci e di un Pasolini-Rimbaud. Il primo è versione puramente «apollinea», i secondi, «dionisiaci» simboli dell’«essor» intellettuale.

Nelle iniziali fasi del cammino in compagnia di Pasolini-Virgilio, Pasolini-Dante, di là della stupenda ed elettiva rievocazione del decennio casarsese (gli anni ’40), subisce l’afflizione della nostalgia. Specie quando anche il divario tra l’essere e il mondo, anziché sublimarsi nel modello aureo della «unio mystica» si acuisce in una distanza incolmabile. Al confronto delle rispettive parti, l’Eden friulano, o della «unio mystica», si scontra con l’era neocapitalista, termine di una rivelazione dolorosa. Qual è infine l’esperienza di colui che soffre l’alterità propria e del mondo come l’esperienza percettiva di un «non-luogo», come topica dell’altrove: «Solo io, segnato da un confine: sproporzione, incredibile, tra questo piccolo me e tutto il resto del mondo, così grande, inesauribile anche nella nostalgia!».
Nella filigrana dello sfondo storico, in quanto momento di un percorso lineare e cronologico condotto a partire dal paradiso friulano per giungere all’inferno neocapitalista, Pasolini compie una revisione di struttura. Interpreta il calco della Commedia dantesca, non già per riscrittura «mimetica» (dei canti, non della struttura), ma in quanto rovesciamento dell’ordine strutturale. Non più dall’inferno al paradiso ma dal paradiso all’inferno. In questo, il disegno della Divina Mimesis non è l’esito di una duplicazione (forma di doppio letterario di matrice strutturale), quanto il suo rovesciamento (quindi, momento di creazione di un’alterità).
Nondimeno, l’elemento autobiografico è lettura dello stato del mondo e lettura retrospettiva del mondo perduto. Un mondo vissuto tuttavia sul filo di un proustismo cercato ma irrecuperabile. A confronto, i decenni Quaranta e Sessanta rovesciano storicamente il destino della poesia: l’età del «mythos» friulano (o l’esistenza della poesia) contro l’età del «logos» neocapitalistico (o della morte della poesia).
Alterità della forma poetica come nuova e definitiva forma della poesia, come esito degenerativo della lingua. Altra alterità correlata: dalla lingua dell’espressione alla lingua della comunicazione come dalla poesia alla morte della poesia.
A voler riassumere, c’è un autore reale, c’è un autore implicito sdoppiato nell’alterità, e c’è infine un autore in forma di editore che pubblica le carte avute in dono dall’autore reale. In questo, l’alterità è triplice, a partire dalla natura polisensa dell’autore: reale, implicito e editore postumo di se stesso. Pasolini l’annuncia nella menzionata «fictio» della Nota dell’editore, quando confessa – in prima persona – che «io mi limito a pubblicare tutto quello che l’autore ha lasciato. Il mio unico sforzo critico, molto modesto, d’altra parte, è quello di ricostruire il seguito cronologico, il più possibile esatto, di questi appunti». È La Divina Mimesis postuma pensata come edizione diplomatica.
La strategia finzionale consiste nell’inventare un’alterità dell’autore in forma di editore di natura non-altra: a raccogliere le carte dell’autore è l’autore travestito da editore. L’altro è lo stesso. L’alterità riveste il valore della ripetizione. E più, alterità di natura macabra. L’autore travestito da editore raccoglie le carte dell’autore «morto, ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l’anno scorso».
E cioè: nella «fictio» mistificante, l’autore reale (Pasolini) scrive di un editore travestito (Pasolini bis), il quale eredita «il corpo dattiloscritto dell’opera» dall’autore defunto (Pasolini ter), limitandosi a pubblicare secondo un ordine cronologico falsamente considerato l’unico intervento di mano estranea. In realtà è esigenza dell’autore in carne e ossa, filtrata dall’ordinamento stesso voluto dall’editore incaricato della pubblicazione.
Un libro, questa Divina Mimesis, concepito come un «misto di cose fatte e di cose da farsi», alla maniera delle pagine più programmatiche di Alì dagli occhi azzurri, racconti in parte «da farsi» e racconti in parte «non fatti». (Alterità della forma letteraria: non finito e estetica postmoderna). E l’editore che eredita il «pacchetto di fogli di carta da macchina da scrivere» per la pubblicazione informa sullo stato generale del documento, notando che accanto a un libro doppiamente intitolato «MEMORIE BARBARICHE» e «FRAMMENTI INFERNALI», e altri titoli sparsi nel corpo del fascio di fogli, compare un terzo titolo sulla penultima pagina, quasi che l’autore abbia concepito la scrittura di un capitolo rimasto tra le cose «da farsi». Il titolo impresso sulla pagina bianca è «PARADISO».
Rimane un mistero sapere se l’altra parte della Divina Mimesis (quella non scritta nella finzione), dovesse realmente continuare in un paradiso (un neo-paradiso rispetto agli anni ’40 friulani?). E mistero rimane sapere inoltre se tale stagione assumesse già la forma dell’alterità ultima assoluta: la ricerca di una nuova (e possibile) bellezza nell’utopia.