La voce controcorrente di Nico Naldini sulla morte di PPP

Nico Naldini, poeta, scrittore e saggista di grande raffinatezza, è una voce libera e sempre fuori dal coro. A riprova, basta leggerne le parole rilasciate al giornalista Mario Brandolin a proposito dell’attuale modalità di promozione della cultura. Inevitabile sentirne la ruvida opinione controcorrente anche sulle manifestazioni che fioriscono in tutta Italia per il quarantennale della morte di Pasolini, di cui è cugino.

Dietro la morte di Pasolini né complotti né congiure: parola di Nico Naldini
di Mario Brandolin

www.messaggeroveneto.it  – 7 giugno 2015

Si dice stoicamente “sospeso” dal mondo, Nico Naldini, rannicchiato come in un bozzolo caldo e amicale nella sua tana di Treviso, asserragliato dal verde rigoglioso quasi selvaggio di un piccolo giardino, tra montagne di libri quadri e disegni, dove l’abbiamo incontrato in occasione dell’imminente ripubblicazione per i tipi di Guanda editore della sua bellissima Breve vita di Pasolini. E sfoggia ritrosia a parlare del presente della cultura, di cui con aria anche un poco scherzosa e civettuola, dice di non interessarsi granché.
«Avendo frequentato personaggi illustri, scrittori, registi, artisti grandissimi, mi riesce difficile confrontarmi con quelli di oggi, che peraltro mi snobbano, non mi cercano, né io cerco o leggo», ammette, anche se, continua, «quando mi capita di incontrare i giovani, questi mi ascoltano con interesse, come è recentemente accaduto al Liceo Stellini di Udine, dove sono stato invitato a parlare a una platea affollatissima e attenta di ragazzi. E mi rivedevo io, giovane a contatto con personaggi della cultura per i quali avevo un sacro rispetto, anche se poi divenni amico di molti».
E a dire il timore quasi reverenziale con cui affrontava questi “mostri sacri”, ricorda il giorno in cui al Premio Nonino del 1986 gli capitò, quale vincitore, di partecipare a una conferenza stampa con un altro vincitore, Levi Strauss, «un solone della grande cultura francese, cui ero stato presentato molto scherzosamente da Guido Botteri, all’epoca direttore della sede Rai di Trieste come uno con i cosidetti controcoglioni: figurarsi il mio imbarazzo, la paura. Non sapevo che pesci pigliare; riuscii alla fine a “catturare” il grande sociologo, raccontandogli dell’emigrazione friulana nel ’900».
E ride di cuore, Naldini, al ricordo di una timidezza che, nonostante tutto, non lo ha mai abbandonato. Per questo si accalora Naldini, quando parla delle nuove generazioni, – «ma sono solo sensazioni», mette le mani avanti -, generazioni che, a suo parere «sono o talmente soddisfatte o fortemente amareggiate al punto che non riescono a vedere un centimetro al di là del presente, euforiche o sfiduciate».
Non certo come i giovani del suo tempo, «che, dice, vedevano e cercavano di interpretare il mondo, di aprirsi al futuro». Ha scritto recentemente delle giovani donne di Casarsa, che nel dopoguerra, pur impegnate in lavori umilissimi e duri, «guardavano il mondo come qualcosa da conquistare, programmavano la vita e speravano nel futuro».
E lo ha fatto in un breve racconto – che l’antico vizio della scrittura non l’ha abbandonato – apparso sulla rivista letteraria “L’immaginazione”. «E’ lì, confessa, che pubblico i miei raccontini, il mio sguardo sul passato e quello che mi succede oggi. Cercando di dare a questi soggetti una sequenza narrativa, senza alcuna connotazione retorica o di nostalgia, di rimpianto o di lode del bel tempo che fu. Al passato dobbiamo guardare freddamente, come quando si capovolge un cannocchiale che distanzia le cose».

Nico Naldini
Nico Naldini

Per questo parla con distacco del mondo – il meglio della cultura italiana del secondo dopoguerra – che lui ha attraversato e vissuto da protagonista, prima a Milano alla Longanesi e poi a Roma occupandosi di cinema. Negli anni ‘60 e dopo, fu tra gli attori di uno straordinario momento di transizione nel modo di concepire la cultura e la divulgazione culturale, nell’editoria in particolare, con l’avvento dei libri tascabili, ad esempio: «Una rivoluzione – sostiene – convinti come si era che la cultura fosse finalmente una cosa democratica». E invece? «Invece non lo so», taglia corto quasi a voler chiamarsi fuori da qualsiasi dibattito o polemica. Salvo poi non risparmiare frecciate e critiche puntuali ai tanti eventi e festival culturali e letterari, anche di casa nostra, che fioriscono copiosi in Italia.
«Sono falsificazioni culturali, non di corruzione, ma di superficialità, snobismo, autoreferenzialità, che non concludono niente, servono molto invece, eccome, a chi li fa… E resto esterrefatto davanti alle folle che accorrono a queste manifestazioni e al fatto che contemporaneamente chiudono le librerie, si legge sempre meno e aumentano involgarimento del linguaggio, impoverimento del gusto e imbarbarimento dei comportamenti. Ho la sensazione che siano delle belle perdite di tempo».
E allora…? «Leggo Montaigne, Nietzsche, che cavolo devo fare»?”, conclude con una risata franca. Naturale allora chiedergli come trascorre il suo tempo? «Il tempo che non dedico alla depressione, alla contemplazione del nulla, riesco ancora ad aprire un libro e a scribacchiare», si schernisce, sottolineando fatica e malcelando anche un certo entusiasmo, dal momento che sta partendo per la Tunisia, dove da sempre Naldini ha il suo buen retiro.
Non è un po’ pericoloso oggi da quelle parti? «Io non bado ai pericoli, per me è più pericoloso andare a Milano. Amo molto la parte mediterranea di quel paese dove c’è Virgilio, Didone, non sono malato di ricordi letterari, però spuntano fuori, e poi la gente è ancora molto carina, buona, generosa, gentile… Cosa vuole che mi facciano, mi ammazzano? Ben venga, coraggio!» E giù un’altra fragorosa risata.
Inevitabile chiedergli del quarantesimo anniversario della morte di Pasolini e degli appuntamenti che si annunciano numerosissimi e di che cosa si augura venga fuori. «Il meno possibile di celebrazioni, o convegni di studio o relazioni di studiosi: anche qui c’è una strumentalizzazione eccessiva», è tranchant e agguerrito Naldini.
«Che, per l’amor di Dio, non facciano tante storie, con tutti questi comitati, cui peraltro io non vengo ammesso assolutamente, anche perché, ad esempio, io non ho mai dato retta ai complottisti, a quelli che vedono nella morte di Pasolini chissà quali congiure, slanci profetici o gesti simbolici. Mi sono scontrato con molti, con Veltroni in particolare che me l’ha fatta pagare in tutte le maniere, ma di cui me ne frego altamente».
E una critica la riserva anche al Centro studi di Casarsa che secondo lui, pur con affetto e simpatia, non valorizza come meriterebbe il ricco archivio di lettere e documenti su e di Pasolini, che lui ha ceduto alla Provincia di Pordenone e ora è in carico al Centro stesso.