La Roma pasoliniana del film “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini

Federico Fellini è il regista della finzione. Quello che fece navigare Casanova a Venezia sui sacchi di plastica, ricostruì la sua Rimini a Cinecittà e si inventò un transatlantico mai passato da quelle parti. Ma c’è stato anche un Fellini diverso, neorealista, pasoliniano. Il regista riminese Marco Bertozzi, docente di Cinema all’Università Iuav di Venezia, è stato uno degli studiosi coinvolti  in una recente giornata di studi organizzata dalla Cineteca di Rimini in collaborazione con l’Università e la cattedra di Cinema e industria culturale di Roy Menarini. Il convegno – tenutosi giovedì 26 ottobre 2017 al Teatro degli Atti – è stato dedicato alla pellicola Le notti di Cabiria, che compie 60 anni nel 2017. Di Bertozzi, relatore sul tema “Scenari filmici e sentimenti urbani”, Vera Bessone ha raccolto alcune interessanti riflessioni sulla rappresentazione felliniana della città di Roma, inizialmente influenzata da un neorealismo di marca pasoliniana e poi  virata sempre più alla dimensione visionaria e immaginifica del sogno e del’inconscio.

Fellini e “Le notti di Cabiria”. Una Roma neorealista e pasoliniana
di Vera Bessone

www.corriereromagna.it –  25 ottobre 2017

La città di Fellini.
«Il rapporto di Fellini con la città e la sua poetica non è mai banale – spiega Bertozzi –. La prima fase, cui appartiene Le notti di Cabiria, è ancora sull’onda del neorealismo. Cabiria si muove in una Roma che si sta espandendo a macchia d’olio, fatta di campi sterrati trapuntati da nuovi palazzoni, quartieri in costruzione, ambienti di frontiera che ben rappresentano la protagonista e il suo status sociale».

L’apporto di Pasolini.
«Pasolini aveva scritto da poco Ragazzi di vita, e Fellini lo coinvolse come consulente alla sceneggiatura. I due vagavano per Roma alla ricerca di suggestioni per Cabiria. Quello di Pasolini fu un apporto importante, anche per gli aspetti linguistici e solo quattro anni dopo anch’egli avrebbe esordito con Accattone (1961), i cui paesaggi urbani e antropici sono i medesimi di Cabiria».

Fellini e Pasolini ai tempi di "Accattone" (1961)
Fellini e Pasolini ai tempi di “Accattone” (1961)

Il passaggio all’onirico.
«Da quando Fellini, nel 1961, inizia a frequentare lo psicanalista Ernst Bernhard, la rappresentazione della città nel suo cinema cambia, tutto l’inconscio entra a farne parte. Non si racconta più una città realista quanto, piuttosto, un’esperienza legata al sentire, all’immaginare la città. Lo si vede bene ne Le tentazioni del dottor Antonio, in cui Fellini ricostruisce con modellini un Eur in miniatura in cui spicca la gigantessa Anita Ekberg. È una immaginazione potente. Subito dopo viene , e la rappresentazione della città diventa sempre di più onirica. In Roma si arriva ai massimi livelli: si veda, ad esempio, la scena ambientata sul Grande raccordo anulare, che Fellini fa ricostruire a Cinecittà chiamando la ditta che l’aveva appena realizzato per davvero.
In Ginger e Fred o in Intervista invece la città diventa mediale: Ginger e Fred ballano in una piazza televisiva, involgarita. Siamo passati dalla città vera, neorealista, degli anni ‘50, a una città in cui si mescolano invenzione e realtà, di un’Italia ormai urbanizzata, fino a una città mediale, dominata dai simboli della pubblicità e dello showbiz».

Ma a Fellini importava davvero la rappresentazione della città?
«Certo, è come se avesse sempre rappresentato una della categorie più forti dell’italianità, del suo vivere urbano: quella della piazza, una dimensione sociale profondamente introiettata, in cui il teatrino della vita può andare costantemente in scena. La piazza diventa un grande palcoscenico, e persino il famoso Studio 5 di Cinecittà si trasforma per lui in una piazza, la sua piazza del cinema».