La figura perduta del “maestro”. Una riflessione

«I maestri che ho conosciuto erano molto difettosi. Forse la maestria sta nel difetto. A quelli che si atteggiano a maestri per carità non andiamogli neanche vicini. Ma quelli che di fatto hanno una loro magistralità per fortuna sono degli uomini normali, con i loro difetti, le loro manie, con la loro malattia e anche con la loro morte». A rilanciare l’eterna questione della trasmissione del sapere e della esemplarità delle  guide di riferimento, interviene così lo scrittore e drammaturgo Giuliano Scabia in una recente bella intervista realizzata da Massimo Marino (www. doppiozero.com/materiali/sala-insegnanti/giuliano-scabia-i-bambini-unici-maestri, 19 luglio 2016). Peraltro, in un inedito del 1971 dedicato al ricordo reverente di Roberto Longhi,  lo stesso Pasolini definiva alla sua maniera  la figura del maestro: «Intanto si capisce soltanto dopo chi è stato il vero maestro» (P.P.Pasolini., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano, 1999, p. 2593). Sulla cruciale questione, che chiama in causa anche il ruolo dell’intellettuale e le forme  attuali dell’ incontro culturale di massa,  si interroga anche Gianfranco Marrone, saggista, scrittore e semiologo. (af)

Maestro cercasi disperatamente
di Gianfranco Marrone

www.lastampa.it –  8 agosto 2016 

Gianfranco Marrone
Gianfranco Marrone

Perplessità: se si cerca “maestro” su Google, le prime cose che vengono fuori riguardano una carta di credito. O di debito, per l’esattezza. Che sia tutto, oggi, un banale commercio di idee? Un do ut des? Se ti insegno una cosa, tu che mi dai in cambio? E i maestri cupi e pensosi del bel tempo andato? Che ne è, peraltro, degli allievi deferenti e fedeli dell’età dell’oro, che ben sapevano alternare tornaconto e riconoscenza? Forse, si sa, neppure allora esistevano veramente né i maestri tutti d’un pezzo né le fiumane di allievi capaci e pazienti. Personaggi mitici come ogni cosa di un passato celebrato senza conoscerlo.
Vero è che, comunque, la questione della trasmissione del sapere, dei cambiamenti epocali che tale pratica sta sicuramente subendo, val la pena di essere interrogata. Con necessario sospetto e sufficiente, appunto, perplessità. E così come sarebbe lacrimevole rammaricarsi per l’assenza dell’accademia platonica o del liceo aristotelico, dove il dialogo peripatetico fondava immensi sistemi di pensiero, è altrettanto indubbio che le nuove tecnologie della comunicazione, internettiana e oltre, stanno con grande rapidità trasformando uomini e cose, relazioni pedagogiche e formazioni intellettuali. Il mito della condivisione, per esempio, porta da un lato a Wikipedia, dove tutti dicono di tutto in un’enunciazione collettiva che si autocontrolla senza reali verifiche. Ma dall’altro lascia trasparire in termini sempre più forti la necessità, se non di un’autorità intellettuale (che mal nasconde forti residui di proprietà privata delle idee), quanto meno di un’autorevolezza di pensiero, di qualcuno che abbia, e sappia tramandare, una buona capacità critica: insegnando, se non che cosa pensare, quanto meno come farlo.
La scuola e l’università, anche superando le frontiere del nostro Paese, sono ormai il regno di una burocrazia mal ammantata di politically correct. Lì i maestri non insegnano a riflettere ma forniscono sedicenti competenze per un mercato del lavoro che non assorbe più nessuno. Non formano, insomma, ma informano. Lo si è detto spesso, senza che nulla sia cambiato in meglio. E il recente, bel libro di Federico Bertoni, Universitaly (Laterza), sta lì a dimostrare che il presunto efficientismo dell’iperorganizzazione accademica, ma anche scolastica, produce inutili idioti. Riempiamo moduli, progettiamo ritmi didattici, dichiariamo per tempo criteri di valutazione, esigiamo nitidezze impossibili: e il livello culturale degli studenti (se non soprattutto dei docenti) peggiora a vista d’occhio. C’è chi dice che è tutto un progetto occulto del neoliberalismo. E a chi non piacciono i complotti non sa cosa pensare. Resta il fatto che il progressivo, e inesorabile, abbassamento delle conoscenze, delle forme di sapere e delle capacità critiche nelle tradizionali istituzioni del sapere si accompagna a una domanda crescente di qualcuno che possa farsi carico di ripristinarle. E i media, costitutivi diffusori di contenuti qualsiasi purché sexy, cioè vendibili, non sono – né potrebbero essere – in grado di occupare questo ruolo.
Popper parlava di televisione come cattiva maestra: la tv, come qualsiasi altro strumento di comunicazione (di massa e non), non ha, per principio tecnologico e sociale, alcuna potenzialità pedagogica. Meno che mai oggi, che viviamo, come in molti sostengono, in un’epoca postmediatica. Chi prova a svolgere allora questo compito di maestro? dove si raccolgono, senza inutili pudori, barbagli di pratiche speranzosamente formative? dove riemerge questa antichissima attività della trasmissione della conoscenza? È evidente: nella miriade dei cosiddetti festival (di filosofia, letteratura, economia, politica, religione, diritto, eccetera eccetera) sparsi per il territorio, che non sono da leggere soltanto come una moda, come un effimero costume intellettuale atto a foraggiare le furbe strategie turistiche di mete senza altre attrattive.

Folla in movimento
Folla in movimento

Sono luoghi affollatissimi, si sa, dove persone d’ogni razza, religione e reddito si radunano – spesso paganti – per ascoltare i nuovi maestri dell’età contemporanea: scrittori, giornalisti, showmen e, guarda caso, professori universitari che, dopo aver riempito l’ennesimo modulo per la trasparenza formativa, semplificano le loro lezioni accademiche in funzione di un pubblico supposto generalista. Così hanno finalmente di fronte qualcuno che si interessa a loro, a quel che pensano e che dicono. Dando finalmente un senso al loro lavoro di maestri.
Nella deregulation generale, come al solito, le cose alla fine si aggiustano. Grazie alle iniziative dei privati o delle piccole amministrazioni. Alle cosiddette buone pratiche. Lasciando comunque aperto più di un interrogativo. Innanzitutto, un domandone: perché accade? Perché chi dovrebbe accorgersi di questo processo – seduto sulle istituzionali poltrone ministeriali giù giù sino a quelle di rettori, presidi e presidenti vari – non prende gli adeguati provvedimenti, magari cercando d’invertire la rotta?
E a questo i soliti posteri risponderanno. A noi rimane da indagare un po’ più a fondo su questi fenomeni antropologici legati al sapere: sui rituali, le pratiche, le mitologie, le narrazioni, i comportamenti tipici, i tic di questi maestri del nostro strano presente che sempre più assumono l’aria di guru del quartierino, come anche del loro pubblico di allievi adoranti, desiderosi di parole tanto incantate quanto perplesse. L’esoterismo di massa non condurrà forse alla nascita di nuovi Platone. Farà risorgere piuttosto, c’è da rifletterci, novelli Fabrizio del Dongo, l’eroe di Stendhal che, fattosi sacerdote, predicava alle masse per poter poi baciare, al buio, l’amata Clelia.

[info_box title=”Gianfranco Marrone” image=”” animate=””]saggista e scrittore, lavora sui linguaggi e i discorsi della contemporaneità.  E’ professore ordinario di Semiotica nell’Università di Palermo. Insegna Semiotica dell’alimentazione e del gusto nell’Università delle scienze gastronomiche di Pollenzo. Tiene regolarmente lezioni e seminari presso diverse università italiane e straniere.
Giornalista pubblicista, collabora a diversi quotidiani e riviste. Scrive su “doppiozero” e “Alfabeta2”. Tiene una rubrica intitolata “ccà ddà ddocu” sul magazine “I love Sicilia”. Dirige “E/C”, rivista dell’Associazione italiana di studi semiotici (www.ec-aiss.it); fa parte del Comitato scientifico del Centro internazionale di scienze semiotiche di Urbino, e delle riviste “Versus”, “Carte semiotiche”, “Lexia”, “Actes Sémiotiques”, “LId’O”. Con Paolo Fabbri dirige la collana “Insegne” presso l’editore Mimesis di Milano, e sta nel comitato scientifico di diverse collezioni editoriali. Svolge ricerche qualitative sulla comunicazione di brand per enti pubblici e aziende private.
Tra i suoi scritti: Il sistema di Barthes (1994), Estetica del telegiornale (1998), C’era una volta il telefonino (1999), Corpi sociali (2001), Montalbano (2003), La Cura Ludovico (2005), Il discorso di marca (2007), L’invenzione del testo (2010), Addio alla Natura (2011), Introduzione alla semiotica del testo (2011), Ccà ddà ddocu (2011), Stupidità (2012), Figure di città (2013), Gastromania (2014), The Invention of the Text (2014), Dilettante per professione (2015), Semiotica del gusto (2016).
Ha introdotto e tradotto in lingua italiana diverse opere di Roland Barthes e Algirdas J. Greimas.[/info_box]