Il “Padre nostro” di PPP e il rischio fertile della parola che non inganna, di Marco Dotti

Pasolini chiuse il secondo Episodio della tragedia Affabulazione  (1966-1970) con un celebre Padre nostro, lancinante contro-preghiera recitata dal Padre, protagonista perturbato di un dramma che ne rappresenta la parabola di genitore assassino del proprio Figlio.  Marco Dotti prende spunto da quei versi per una sua riflessione sul valore della parola: vacua e pericolosa se suono inattivo o bugiardo; luminosa e fertile, se aperta al rischio della verità.

di Marco Dotti

www.blog.vita.it – 22 ottobre 2014

«Che me ne faccio di questa persona, così ben difesa dagli imprevisti?», si chiedeva Pier Paolo Pasolini nei versi del suo Padre nostro. «La buona reputazione, ah, ah! Padre nostro che sei nei Cieli, cosa me ne faccio della buona reputazione, e del destino – che sembrava tutt’uno col mio corpo e il mio tratto – di non fare per nessuna ragione al mondo parlare di me?». Che me ne faccio di questa persona così precisa, responsabile, consapevole, educata. Di questa persona che non sbaglia mai, non cade mai: sempre sulla linea, sempre in equilibrio, il cui spirito quieto è sempre circoscritto dai margini sterili della legge?

Che me ne faccio di una persona che mai si aprirà al beau danger, al bel rischio? E il rischio altro non è che la parola. La parola data, la parola presa, la parola detta, la parola scritta. La parola che si apre alle sue conseguenze. Ma la parola di quest’uomo è inoperosa. Letteralmente: è una parola vana. Verbum otiosum, rende la versione latina di Matteo 12, 36-37.

… dico autem vobis quoniam omne verbum otiosum quod locuti fuerint homines reddent rationem de eo in die iudicii. Ex verbis enim tuis iustificaberis et ex verbis tuis condemnaberis.

Di ogni parola inutile «gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio. Infatti, in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato». Parola vuota, verbum otiosum, abbiamo detto. Ma l’originale greco ci dice qualcosa di più. Il greco del Vangelo ricorre all’aggettivo argós, che significa senza opera, inoperoso, improduttivo«Senza utilità né per chi parla, né per chi ascolta», chiosava San Girolamo. Questa parola è quella che un tempo si sarebbe detta “senza opera né giorni”, ossia una parola che non muove in azione (alpha privativo + érgon).  Una parola che non si muta in atto basta per cadere. Non servono parole cattive. Gesù è chiaro su questo punto: ogni parola che non si tramuti in atto è malvagia.

parole

Ritornano alla mente altre parole, stavolta di Martin Buber, che insegnava: «Ogni conflitto fra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico». La radice del rapporto fra verità e menzogna, che ha interessato tutta la storia della riflessione occidentale, si gioca proprio qui: sul margine incerto tra parola e azione. Si gioca sul rischio, su quell’imprevisto che la parola per sua disposizione e natura è. Un rischio che Totò – filosofo sommo – aveva ben compreso: è la parola a farci uomini o caporali. Senza questo imprevisto, senza questa apertura al rischio, la parola si consegna a un legalismo sterile. Si mette nella gabbia di ciò che Hannah Arendt chiamava «la cospirazione in pieno giorno». Un tempo, scrive la Arendt, si mentiva ai cittadini quando i cittadini non sapevano. Oggi, al contrario, si mente ai cittadini quando loro possono, almeno in linea di principio, sapere tutto. È questa menzogna assoluta, questa «esposizione assoluta alla menzogna» come la chiama Derrida, a interrogarci oggi. E forse il termine menzogna non è nemmeno adatto a descrivere questa paralisi, questo stallo dove alle parole che si ammassano su parole non conseguono azioni.

 «Che me ne faccio di questa persona, così ben difesa dagli imprevisti?», urlava Pier Paolo Pasolini. Già, che ce ne facciamo?

 

Padre nostro che sei nei Cieli
(da Affabulazione)

Padre nostro che sei nei Cieli,
io non sono mai stato ridicolo in tutta la vita.
Ho sempre avuto negli occhi un velo d’ironia.
Padre nostro che sei nei Cieli:
ecco un tuo figlio che, in terra, è padre…
È a terra, non si difende più…
Se tu lo interroghi, egli è pronto a risponderti.
È loquace. Come quelli che hanno appena avuto
una disgrazia e sono abituati alle disgrazie.
Anzi, ha bisogno, lui, di parlare:
tanto che ti parla anche se tu non lo interroghi.
Quanta inutile buona educazione!
Non sono mai stato maleducato una volta nella mia vita.
Avevo il tratto staccato dalle cose, e sapevo tacere.
Per difendermi, dopo l’ironia, avevo il silenzio.

Padre nostro che sei nei Cieli:
sono diventato padre, e il grigio degli alberi
sfioriti, e ormai senza frutti,
il grigio delle eclissi, per mano tua mi ha sempre difeso.

Mi ha difeso dallo scandalo, dal dare in pasto
agli altri il mio potere perduto.
Infatti, Dio, io non ho mai dato l’ombra di uno scandalo.
Ero protetto dal mio possedere e dall’esperienza
del possedere, che mi rendeva, appunto,
ironico, silenzioso e infine inattaccabile come mio padre.
Ora tu mi hai lasciato.
Ah, ah, lo so ben io cosa ho sognato
quel maledetto pomeriggio! Ho sognato Te.
Ecco perché è cambiata la mia vita.

E allora, poiché Ti ho,
che me ne faccio della paura del ridicolo?
I miei occhi sono divenuti due buffi e nudi
lampioni del mio deserto e della mia miseria.

Padre nostro che sei nei Cieli!
Che me ne faccio della mia buona educazione?
Chiacchiererò con Te come una vecchia, o un povero
operaio che viene dalla campagna, reso quasi nudo
dalla coscienza dei quattro soldi che guadagna
e che dà subito alla moglie – restando, lui, squattrinato,
come un ragazzo, malgrado le sue tempie grigie
e i calzoni larghi e grigi delle persone anziane…

Chiacchiererò con la mancanza di pudore
della gente inferiore, che Ti è tanto cara.
Sei contento? Ti confido il mio dolore;
e sto qui a aspettare la tua risposta
come un miserabile e buon gatto aspetta
gli avanzi, sotto il tavolo: Ti guardo, Ti guardo fisso,
come un bambino imbambolato e senza dignità.

La buona reputazione, ah, ah!
Padre nostro che sei nei Cieli,
cosa me ne faccio della buona reputazione, e del destino
– che sembrava tutt’uno col mio corpo e il mio tratto –
di non fare per nessuna ragione al mondo parlare di me?
Che me ne faccio di questa persona
cosi ben difesa contro gli imprevisti?

 

[info_box title=”Marco Dotti” image=”” animate=””]nato a Chiari, in provincia di Brescia, fa parte della redazione del mensile “Communitas” e di “Vita”. E’ docente di Professioni dell’editoria al corso di laurea in Comunicazione dell’Università di Pavia. Nel 2013 ha pubblicato Slot city. Milano-Brianza e ritorno (RoundRobin), Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana (ObarraO), e ha curato No slot. Anatomia dell’azzardo di massa (Feltrinelli Zoom). Scrive per “il Manifesto”, “Alias”, “Lettera internazionale”, “L’Indice”.[/info_box]