Il comunismo inquieto e non conforme di Pasolini, di Roberto Carnero

Un bilancio, firmato da Roberto Carnero, dell’ultima giornata del convegno di studi “Pasolini e il politico”, organizzato dal Centro Studi Pasolini di Casarsa della Delizia (7-8 novembre 2014). Per il  ritratto sfaccettato di una intelligenza formidabile e libera, che tuttora non manca di interrogarci.

di Roberto Carnero

www.ilpiccolo.it – 10 novembre 2014

Con un toccante intervento di Furio Colombo, che ha rievocato l’ultima intervista da lui fatta a Pier Paolo Pasolini il giorno prima della morte (avvenuta nella notte tra il 1° e 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia), si è chiuso il convegno del Centro studi Pasolini a Casarsa, quest’anno dedicato alla dimensione politica dell’intellettuale. «Pasolini – ha detto Colombo – si professò sempre comunista, ma il suo era un comunismo inquieto, non ideologico e certamente non partitico. Il suo genio non avrebbe potuto farsi costringere entro i limiti rigidi di una ortodossia che rischiava di essere asfissiante. La misura di Pasolini, la sua percezione della realtà era incompatibile con una misura partitica, e in particolare con i confini storici, geografici, ideologici, disciplinari di quello che era il Pci negli anni ’50, ’60 e ancora ’70. Pasolini era un problema perché era un concentrato di intelligenza, unito a una formidabile capacità espressiva, che risultava difficilmente arginabile e ridimensionabile».

Furio Colombo
Furio Colombo

D’altra parte il Pci aveva espulso Pasolini, nell’ottobre del 1949, per “indegnità morale”, dopo i cosiddetti “fatti di Ramuscello”, lo scandalo a sfondo omosessuale che lo costringerà ad abbandonare il Friuli per Roma all’inizio del ’50. Lo ha ricordato la storica Anna Tonelli: «Il moralismo del Pci non era molto diverso da quello della Dc, che strumentalizzò politicamente il caso per sbarazzarsi di un avversario già allora scomodo a livello locale. Stranamente sono scomparsi dagli archivi i verbali delle seduta della sezione provinciale che decretò l’espulsione di Pasolini. Credo che ciò sia avvenuto perché anni dopo i nuovi dirigenti comunisti si vergognarono di quanto avevano fatto i loro compagni, decidendo così di fare piazza pulita delle carte».
Altri due interventi – quello dei critici letterari Angelo Fàvaro e quello di Massimo Raffaeli – hanno indagato i rapporti di Pasolini rispettivamente con Alberto Moravia e Paolo Volponi. Moravia e Pasolini risultano accomunati dal loro rifiuto del conformismo. «Non direi che fossero anticonformisti – ha spiegato Favaro – perché l’anticonformismo rischia spesso di essere una posa che si assume per partito preso. La loro era insofferenza per i luoghi comuni e per le cose pensate e dette da altri, che finiscono con l’essere, sul piano sociale e politico, profondamente repressive». Raffaeli ha sottolineato invece il rapporto con Volponi: «La loro amicizia è testimoniata da un eccezionale scambio epistolare. Entrambi valutavano negativamente la deriva autoritaria del sistema industriale del capitalismo avanzato, visto non soltanto un sistema economico e produttivo, ma come qualcosa che incide nel profondo sulle dinamiche sociali e civili. Per questo si può affermare che la loro critica al “capitale” (usando il vocabolo non solo nell’accezione marxista, ma anche in quella propriamente volponiana) è una critica di forte sostanza politica».