“I racconti di Canterbury”: Chaucer e Pasolini

 

da La “Trilogia della vita” di Pier Paolo Pasolini

di Fabio Frangini

http://www.ilcorto.it/

Quando aprile con le dolci pioggette ha penetrata fino alle radici l’arsura di marzo e adacquata ogni vena dell’umore dalla cui virtù s’ingenerano i fiori: quando zefiro pure col molle suo soffio ingemma i teneri germogli in ogni bosco e brughiera, e il giovane sole ha percorso il suo mezzo tragitto in Ariete e fan melodia gli uccelletti che dormon la notte con occhi socchiusi, tanto li punge in cuore la natura, allor brama la gente d’andar pellegrina e i palmieri di cercare strani lidi e santuari lontani in fama per contrade diverse, e specialmente dai margini estremi d’ogni contea d’Inghilterra s’avviano verso Canterbury per visitare il santo martire benedetto che li soccorse durante le loro infermità.

Questo è il famoso incipit dei Canterbury Tales, in cui viene introdotto, nel risorgere panico della natura, il motivo del pellegrinaggio riconoscente verso una meta salvifica; in modo che al nuovo fremito vitale che percorre la stagione corrisponde il viaggio visto come elevazione morale, come purificazione (si ricordi il lungo sermone sui peccati capitali che conclude l’opera). A questo incipit Chaucer fa seguire la rassegna dei ritratti dei ventinove pellegrini della Tabard Inn, per poi presentare la proposta, fatta dall’Oste, di raccontare delle storie lungo il cammino.
I racconti di Canterbury di Pasolini, invece, si aprono calati direttamente all’interno di un “brulichio puramente esistenziale” fatto di risate, urla vivaci, e canzoni sguaiate; infatti (come già nel Decameron) la colonna audio dei titoli di testa è costituita da un vociare confuso in presa diretta, su cui si innesta una canzone popolare in lingua inglese. A questa canzone risponde, subito dopo i titoli, “Fenesta ca’ lucive” cantata con accento inglese dall’Indulgenziere nello spiazzo vicino alla locanda.
Per la terza volta in un film di Pasolini (dopo il Decameron e, molto più lontano nel tempo, in Accattone) si ha la riproposizione di questa canzone popolare napoletana; e, ancora una volta, questa canzone (che già di per sé ha un testo “funerario”) viene accostata al fondamentale ed imprescindibile tema pasoliniano della morte. Infatti sarà proprio l’Indulgenziere colui che racconterà la storia dei tre giovani scapestrati che partono alla ricerca del ladro chiamato “la Morte”, per poi uccidersi a vicenda. Si può dire, dunque, che come i Tales di Chaucer si aprono alla vita rinnovata di un aprile rugiadoso, così i Racconti pasoliniani hanno impressa su di sé, sin dall’inizio, l’irresistibile vocazione alla morte.
“Ho raccontato queste storie solamente per il piacere di raccontarle.” Il piacere di raccontare storie implica un giocare con ciò che si narra, e questo giocare implica una certa libertà riguardo alla materia. Questa libertà di fronte alla materia richiede che la ricostruzione di Chaucer sia di fantasia, e che non debba essere usata come pretesto per la ricostruzione di un periodo storico. La storia in questo film è strettamente di fantasia. Perciò devo dimenticare Chaucer per poter fare il film come un mio gioco di fantasia, un mio gioco personale come autore.
I ventinove pellegrini che Chaucer immagina di incontrare alla Tabard Inn di Southwark sono uno specchio fedele, nella varietà policroma delle attitudini e dei mestieri, della società Inglese della fine del XIV secolo. I rappresentanti di tutte le classi sociali, eccettuate la nobiltà e il proletariato contadino, si ritrovano attorno ad una stessa tavola in procinto di partire per il reliquiario di Thomas Becket a Canterbury; l’occasione “carnevalesca” del pellegrinaggio – così come la fuga da Firenze dell’«allegra brigata» – enfatizzata dall’atmosfera conviviale in cui si intrecciano e si contrappongono i dialoghi e i racconti, permette – con l’allentarsi dei vincoli sociali ed economici – il libero sovrapporsi del comico sul serio, del linguaggio alto su quello triviale, dell’eroico sul parodico, eccetera. Infatti, i Canterbury Tales, oltre ad essere l’affresco multiforme e fedele di un mondo a cavallo di due epoche, carico di fermenti innovatori così come di eredità imprescindibili, sono anche un repertorio esaustivo delle forme narrative più disparate: dal racconto comico e dalla farsa salace del fabliau fino al romanzo cortese (rovesciato, a sua volta, nella parodia di se stesso) e poi il lai bretone, l’exemplum, l’apologo, la favola animalesca, le leggende dei santi ed, infine, l’omelia sui peccati capitali del Racconto del parroco.
In questa galleria compendiaria di tutta la narrativa medioevale europea Pasolini opera la sua scelta. E sceglie in maniera analoga a quanto aveva fatto nei riguardi del Decamerone; cioè privilegiando quasi esclusivamente la narrazione sapida e immediata dei fabliaux e l’ambientazione popolare che li contraddistingue. Ancora una volta, dunque, il regista ritaglia un “suo” Chaucer, escludendo quanto non contribuisca al recupero della “corporalità popolare” vissuta nella sua autenticità. Ma mentre i personaggi di Chaucer, anche nel più piccolo particolare realistico (molto spesso mutuato dalla fisiognomica o dai lapidari e dai bestiari, e quindi frutto di erudita codificazione più che di freschezza realistica), rimandano ad un sistema di significati e convenzioni colto nel vivo della società inglese in cui lo scrittore viveva; il realismo di Pasolini non può che essere “ontologico”, perché allontanato al di là di ogni stratificazione e significazione storica; un “realismo cieco”, dunque, che non allude a nient’altro che a se stesso, alla propria presenza e alla propria fisicità.
Ma in questa operazione di inclusione ed esclusione Pasolini non può certamente prescindere in maniera assoluta da quelle che sono le caratteristiche peculiari di Chaucer, dei Canterbury Tales, dell’epoca e del contesto socio-culturale a cui appartengono.

Chaucer si colloca a cavallo fra due epoche. Ha qualcosa di medievale, di gotico: la metafisica della morte. Ma spesso si ha l’impressione di leggere un autore come Shakespeare o Rabelais o Cervantes. E’ un realista, ma è anche un moralista e un pedante, e inoltre mostra straordinarie intuizioni. Ha ancora un piede nel Medioevo, ma non è uno del popolo, anche se raccoglie i suoi racconti dal patrimonio popolare. In sostanza, è già un borghese. Guarda già alla rivoluzione protestante e perfino alla rivoluzione liberale, nella misura in cui i due fenomeni si combineranno in Cromwell. Ma mentre Boccaccio, che era pure un borghese, aveva la coscienza tranquilla, con Chaucer si avverte già una sensazione sgradevole, una coscienza turbata e infelice.
Chaucer presagisce tutte le vittorie, tutti i trionfi della borghesia, ma ne presente anche il marciume. È un moralista, ma dotato anche del senso dell’ironia.

L’epoca di Chaucer può essere espressa, significativamente, dal duplice segno del movimento protoriformatore di John Wycliffe e del fallimento della rivolta contadina guidata da Wat Tyler e John Ball; ovvero, come dice Pasolini, dal presentarsi, in germe, di quelle problematiche che faranno da sfondo alle tappe successive della progressiva “presa di coscienza” (e quindi “presa di potere”) della classe borghese.
Accompagnata a queste “straordinarie intuizioni” sulla rivoluzione borghese, però, ritroviamo in Chaucer una componente ancora legata al medioevo e al suo immaginario “gotico”, cioè quella che Pasolini definisce (un po’ ambiguamente) come “metafisica della morte”, ma che in realtà deve essere intesa come compresenza di allegoria e di profondo realismo nella rappresentazione della stessa. Infatti, in un’altra intervista del periodo, Pasolini chiariva il concetto dicendo:

La morte, l’aldilà, è sempre presente; una morte, però, medievale, quindi profondamente allegorica e allo stesso momento volgare fino all’abiezione.

Questa presenza della morte percorre, in un certo senso, tutte le novelle scelte da Pasolini, ma risulta evidente nel Racconto del Frate e, soprattutto, in quello dell’Indulgenziere, dove “la Morte” è addirittura il personaggio cercato dai tre giovani per vendicare l’amico.
Nel Decameron, come si è visto, Pasolini aveva sostituito il fiorentino trecentesco di Boccaccio con la “materia viva e incandescente” del parlato contemporaneo napoletano e campano; nel caso de I racconti di Canterbury la scelta della lingua da usare fu abbastanza simile:

Certo non potevo usare l’inglese di Chaucer, per cui ho fatto ricorso al più semplice vernacolo possibile, con alcuni elementi dialettali. Mi sono servito delle parole di Chaucer, ma le ho tradotte in un idioma moderno. Ad esempio, nel Racconto del venditore di indulgenze, che è quello sui tre ragazzi ai margini della società, che vivono di espedienti e così via, i tre ragazzi li ho trovati per strada. Per puro caso, erano tutti e tre scozzesi, per cui parleranno con l’accento scozzese. Girerò il Racconto del Cuoco nei docks di Londra, e in questo episodio si parlerà in cockney, nel tipico dialetto londinese. (…) E poi, quando mi sono trovato giù vicino a Bath, e a Wells, il modo di parlare di quella gente mi è piaciuto moltissimo, e quindi in qualche brano userò l’accento del Somerset. Io mi servo della lingua viva, mettendo insieme i più disparati dialetti.

Dunque, ancora una volta, Pasolini sceglie di sovrapporre all’opera letteraria non un linguaggio arcaizzante frutto di una ricerca erudita, ma “la lingua viva” delle classi popolari, parlata dagli attori non professionisti scelti, letteralmente, dalla strada e chiamati ad interpretare i personaggi chauceriani prestando ciò che rimane di non ancora “colonizzato dal potere”: il corpo e, come si è appena visto, il dialetto.
Naturalmente, però, questa ricchezza linguistica non può essere mantenuta nel doppiaggio in italiano, che risulta privo di particolari inflessioni vernacolari; ad eccezione del Racconto del Fattore, dove Pasolini fa parlare ai due studenti un italiano con un’evidente calata bergamasca.