Francesco Leonetti: due ritratti di Massimo Raffaeli e Marco Belpoliti

Massimo Raffaeli e Marco Belpoliti  disegnano due intensi ritratti di Francesco Leonetti, recentemente scomparso a Milano  il 17 dicembre 2017  all’età di 93 anni. Fu uno scrittore e un intellettuale  attraversato dall’inquietudine politica e culturale, caratteristica che ne fa un testimone esemplare della vitalità letteraria e civile del secondo Novecento italiano, almeno fino all’altezza degli anni Settanta, segnati dallo slancio utopistico e dalla creatività espressiva e interpretati e vissuti da Leonetti anche con una sorta di ingenuità appassionata.

Un poeta irato ma sereno
di Massimo Raffaeli

https://ilmanifesto.it – 19 dicembre 2017

Complessità e antagonismo sono le parole-chiave per intendere, tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso, figure individuali o gruppi politici e intellettuali che abbiano tentato sia di comprendere sia di sottoporre a critica radicale il neocapitalismo italiano e perciò, per quanto paradossale possa sembrare, di civilizzarlo. Tra costoro, di singolarissima fisionomia e di particolare vivacità, è stata la figura di Francesco Leonetti, morto domenica scorsa a Milano in una casa di riposo dove da tempo era ricoverato.
Scrittore di partiture plurali, polifoniche, e militante della sinistra comunista (le due cose per lui non erano affatto separabili), Leonetti nasce a Cosenza nel ’24 in una famiglia borghese. Suo padre è magistrato, poi attivo nei processi di epurazione nello stesso momento in cui il figlio è costretto a curare una sordità sopravvenuta per lo scoppio di una bomba mentre, da coscritto dell’esercito di Salò, scavava una trincea dalle parti di Cassino. Gli rimarrà una ripulsa fisica per il fascismo nonché una inquietudine che gli indurrà in un primo tempo problemi di comunicazione e la scelta del mestiere di bibliotecario, tra l’altro nella prestigiosa «Malatestiana» di Cesena.
Il suo dopoguerra a Bologna è comunque fervido di riferimenti: al Caffè Zanarini, in piazza Galvani, può incontrare Roberto Longhi, il grande storico dell’arte, e Galvano della Volpe, filosofo materialista, un anti-Croce il cui lascito di estetica è scritto nella Critica del gusto, mentre è fuori dalle aule dell’università che ritrova fra il ’55 e il ‘59 due compagni del liceo Galvani, Roberto Roversi e Pier Paolo Pasolini, con i quali fonda la rivista «Officina», alla cui redazione presto si aggiungono Gianni Scalia, Franco Fortini e un finissimo italianista quale Angelo Romanò.
Il programma della rivista punta sia a un bilancio del secolo sia a un rinnovamento della letteratura corrente opponendosi da un lato al Grande Stile (l’ermetismo, cioè il tardo simbolismo italiano) dall’altro a un neorealismo troppo spesso cedevole al populismo e alla propaganda edificante. Pasolini, in Poesia in forma di rosa, così ritrae l’amico: «Ma la formica laboriosa ha il buco/ dove se ne sta sola, e canta/ come la cicala. Questa la/ sua vita, ma è vita/ sua, nera».

Da sinistra, Pasolini, Francesco Leonetti, Roberto Roversi, Paolo Volponi, Bologna
Da sinistra, Pasolini, Francesco Leonetti, Roberto Roversi, Paolo Volponi, ai tempi di “Officina”. Bologna 1957

È la nerezza medesima di un immaginario nutrito dal pensiero-poesia degli outsider meridionali (Bruno, Campanella, Bernardino Telesio) che fermenta nei versi scanditi e scoscesi, volentieri gnomici, de La cantica (Mondadori, 1959) ma anche nella prose autobiografiche di Fumo, fuoco e dispetto (Einaudi, 1956, voluto da Elio Vittorini nella collana «I Gettoni») e nel bellissimo romanzo di formazione che chiude i conti con Bologna e si intitola Conoscenza per errore (Feltrinelli, 1961).
Il nome di Vittorini corrisponde per Leonetti a una autentica svolta. Vittorini dell’inquietudine politica e dello spirito di ricerca intellettuale è forse il massimo testimone della seconda metà del secolo e dunque trova nel più giovane scrittore (che per lui si trasferisce a Milano, sui Navigli) tanto una sponda quanto un fervido maieuta di iniziative culturali e politiche, specie per la rivista «Gulliver», pensata in termini internazionali e plurilingui che purtroppo non vedrà mai la luce, nonostante l’adesione di Günter Grass, Maurice Blanchot, Hans Magnus Enzesberger e altri di simile rango. Ma Milano è il luogo di giuntura tra il nativo sperimentalismo e l’adesione alla neoavanguardia di Edoardo Sanguineti e dell’amico Elio Pagliarani, è il luogo del sodalizio con lo scultore Arnaldo Pomodoro (cui dedicherà il Libro per le sculture di Arnaldo Pomodoro, Mazzotta, 1974) e di altri compagni di via (su tutti Paolo Volponi, Umberto Eco, Nanni Balestrini, Antonio Porta) con i quali fonda la rivista «Alfabeta». E Milano è anche il luogo quotidiano di un ritrovato insegnamento, Estetica alla Accademia di Brera, e di un sempre più intenso impegno politico, nei pieni anni Settanta, tra i gruppi di militanti marxisti-leninisti cui Leonetti adduce la nativa irrequietezza di scrittore e l’impegno condiviso con sua moglie Eleonora Fiorani, studiosa del materialismo e autrice del notevole Fiedrich Engels e il materialismo dialettico (Feltrinelli, 1971).
Sono questi gli anni apicali di un autore che accede al senso comune della nuova sinistra con alcuni libri che di quella stagione sanno esprimere l’immaginario utopico e l’inventiva sbrigliata con andatura ora da apologo filosofico ora invece da racconto picaresco, L’incompleto (Garzanti, 1964), Il tappeto volante (Mondadori, 1967) e il piccolo capolavoro Irati e sereni (Feltrinelli, 1974) nel cui titolo davvero pulsa lo spirito dei tempi.
Quando Einaudi decide di pubblicare l’opera omnia di Leonetti (le prime uscite sono due raccolte poetiche, Percorso logico del 1960-75 e In uno scacco, 1978) è già segnato il principio della fine per il tempo della complessità e dell’antagonismo perché intanto si sta inaugurando ciò che fu detto riflusso ma significa ripiegamento, clausura intellettuale e smaccata reazione politica. E infatti Campo di battaglia (Einaudi, 1981) rappresenta per lui quasi un testamento predatato, essendo un romanzo di degenza e malattia, un presagio di difficile, dolorosissima sopravvivenza.
Negli anni Ottanta lo scrittore si defila per un periodo di ripensamento, quasi un processo di metabolizzazione della sua lunga vicenda letteraria e politica. Il progressivo affermarsi di un Pensiero Unico che sceglie la letteratura evasiva, acritica, nonché la produzione di genere e di intrattenimento, cui si sommano la de-politicizzazione generalizzata e l’idea che il nostro mondo sia immodificabile, ne fanno ormai un refrattario alla grande editoria. Affida i suoi versi, sempre più scarni e gnomici, si direbbe leopardianamente disperati, alla piccola editoria di qualità aristocratica, come Scheiwiller di Milano o Manni di Lecce, per esempio Palla di filo (1986) o Le scritte sconfinate (1994) cui si aggiunge la raccolta complessiva Sopra una perduta estate. Poesie scelte 1942-2001 (No reply editore, 2008).
Il suo ultimo tempo è dedicato a un bilancio critico e autocritico, come attestano il dialogo con Paolo Volponi Il leone e la volpe (Einaudi, 1995), il bel documentario di Marina Spada, Lo scrittore a sette code (2015) ma prima ancora la tranche autobiografica La voce del corvo. Una vita (1940-2001), a cura di Veronica Piraccini (DeriveApprodi, 2001). Quest’ultimo titolo, ovviamente, si riferisce a Uccellacci e uccellini (’66), il film-apologo di Pasolini dove Leonetti non compare ma presta la sua voce al corvo socratico, soccorrevole e incalzante, che accompagna i due picari Totò e Ninetto Davoli lungo il viaggio iniziatico che li inoltra nel neocapitalismo italiano.
Si è detto che, nella sua implacabilità, il corvo farebbe pensare a Franco Fortini ma quando si presenta a Totò, prima di essere spennato e sacrificato ritualmente, è proprio a Francesco Leonetti che viene da pensare: «Io vengo da lontano… il mio paese si chiama ideologia… vivo nella capitale città del futuro … in via Carlo Marx 70 volte 7…» Con tutta la sua furia inventiva, con il perpetuo dibattito sulla propria posizione e sui destini generali, Leonetti non era affatto un dottrinario: per lui «ideologia» non era falsa coscienza ma, come voleva il suo grande amico, era piuttosto un corrispettivo della «passione», la passione di essere al mondo, per testimoniarlo e insieme trasformarlo.

Francesco Leonetti in un'immagine della vecchiaia
Francesco Leonetti in un’immagine della vecchiaia

Francesco Leonetti o del pozzo stretto
di Marco Belpoliti

www.doppiozero.com – 19 dicembre 2017

Com’è possibile dimenticare la voce del corvo in Uccellacci e uccellini  di Pasolini, quella parlata dall’inflessione meridionale e insieme bolognese, petulante e vagamente fastidiosa? Francesco Leonetti è la voce del corvo marxista, e lo è stata per tutti gli anni a seguire il film del poeta, tanto che,  dovendo intitolare nel 2001 la sua autobiografia, aveva scelto il riferimento a Pasolini.
Pasolini e Vittorini sono state le figure maschili centrali della vita attiva di Leonetti, nato nel 1924 a Cosenza (scomparso ieri a Milano a novantatre anni), a sua volta indispensabile spalla dei due letterati in alcune imprese editoriali che hanno lasciato un durevole segno nella letteratura italiana del dopoguerra: «Officina», a Bologna tra il 1955 e il 1959, e «il Menabò», a Milano, per cui, alla fine degli anni Cinquanta, Leonetti iniziò a preparare un supplemento europeo mai nato, di cui avrebbero dovuto essere redattori Blanchot, Mascolo, Bachmann, Enzensberger, Uwe Johnson, e altri scrittori tra Francia, Germania e Italia, intitolato «Gulliver» (una raccolta dei materiali inediti è uscito in “Riga” edito da Marcos y Marcos nel 2003 a cura di Anna Panicali).
Ma ridurre l’attività di Leonetti alle riviste che ha prodotto (ad esempio «Alfabeta», negli anni Ottanta con Corti, Balestrini, Eco) è fargli un vero torto. Oltre che poeta, scrittore (Fumo, fuoco e dispetto, del 1956, è un «Gettone» di Vittorini) è stato agitatore, insegnante (di estetica a Brera), militante politico, teorico e pratico di quasi tutti i movimenti estremisti che si sono succeduti a partire dal Sessantotto in Italia, dai marxisti-leninisti di “Servire il popolo” di Aldo Brandirali, all’Autonomia operaia di Toni Negri. Leonetti, per ragioni fisiche prima ancora che morali, è un trikster, un personaggio che sembra appartenere a un mondo interstiziale, situato nell’intercapedine che separa gli uomini dagli umani. Solo così si riescono a spiegare le sue infaticabili attività, le energie quasi inesauribili, il fuoco sacro che sembra ardergli dentro, un fuoco che lanciava fiammate improvvise e aveva fatto guizzare in assemblee, riunioni, consigli editoriali, semplici incontri tra amici.
Espressivo Leonetti lo è stato non solo nella sua scrittura, elaborata e insieme ingenua, manierata e insieme diretta, ma anche e soprattutto nella vita, una vita di passioni e conoscenze, spesso con errori, di campi di battaglia, per usare titoli di suoi volumi, in cui la voce del corvo marxiano ha urlato slogan, protestato, proclamato verità, declamato versi, sempre alla ricerca di quell’impossibile punto di equilibrio tra letteratura e politica che è stata la sua ossessione a partire dalla metà degli anni Cinquanta.
Leonetti è stato la coscienza inquieta della sinistra letteraria italiana, quella più sovversiva e indisciplinata, quella votata, con piena consapevolezza e spesso con allegria, al fallimento politico. Eppure, in mezzo a tanti passaggi anche tortuosi della storia italiana degli ultimi quarant’anni, il folletto-Leonetti è riuscito sempre a far valere le ragioni della sua passione, restando, come dice il titolo di un altro suo libro, sospeso tra saggismo e narrazione, irato e sereno. L’ultima autobiografia uscita, La voce del corvo. Una vita (1940-2001) da Derive Approdi, che fa seguito a La vita e gli amici (In pezzi) (Manni 1992), era un libro che trasmetteva il senso di quella inesausta voglia di discutere continuamente di tutto e di tutti, di ripensare a se stesso in termini non nostalgici ma vitali, se non addirittura vitalistici (si leggano le pagine dai risvolti sentimentali e sessuali, per esempio). L’energia prorompe dalle pagine della Voce del corvo, e insieme traspare l’incredibile ingenuità del militante, della vita, prima ancora che della cultura o della politica. Così in definitiva ci appare: candido e nativo, anche quando si è sforzato di essere malizioso e duro.
Pasolini, che l’aveva molto caro, e con cui sovente discuteva in modo anche brusco, in una memorabile lettera del 1958 gli scriveva riguardo l’ambiente letterario in cui Leonetti si muoveva: «Mi sembra che il tuo vivere e operare e rigirarti sempre nello stesso meschino ambiente letterario, ti abbia dato proporzioni straordinariamente profonde, ma anche meschine. Un pozzo profondo ma stretto. La materia che ci passa va fino in cuore alla terra ma è poca, forzatamente filtrata. Non si può leggere un libro di poesia, ormai, da parte nostra, “ambientandolo” nel meschino giro d’orizzonte di una situazione letteraria. Se tu facessi un viaggio, o cambiassi professione, ti accorgeresti come tutto questo non conta. Oppure conta, certo, ma su tutt’altra scala di valori» (gennaio 1958, pubblicata in Pasolini, Lettere 1955-1975).
La definizione di «pozzo profondo ma stretto»  è perfetta per Leonetti, detta dal suo amico con il massimo di affetto. In questa lettera Pasolini metteva a fuoco la sua diversità non solo rispetto a Leonetti, ma da tutto l’ambiente letterario dell’epoca – l’ambiente letterario in generale. Quanto è cambiata la letteratura in questi sessant’anni?, viene da chiedersi. Leonetti è rimasto un personaggio liminare, a metà tra quel mondo cui pure apparteneva – letteratura e poi letteratura/politica – e quello rappresentato invece da Pasolini, che è stato un modo di essere unico e straordinario, inimitabile. Andare «in cuore alla terra», non è da tutti. Seppur stretto, benché profondo, il pozzo-Leonetti ci ha provato, e a suo modo ci è riuscito.