Fortini e Pasolini: due scomodi compagni di strada. Appunti sugli anni Cinquanta, di Maurizio D’Adamo

Nella rivista online del Centro Studi Franco Fortini, “L’ospite ingrato”, è apparso il 4 maggio 2010 un puntuale intervento di Maurizio Adamo sulle contrastate relazioni tra Franco Fortini e Pasolini.  Due poeti “civili” e due “compagni di strada” che molte divergenze, non solo di carattere, hanno talora diviso, ma che il rispetto ha sempre tenuto in contatto.   

di Maurizio  D’Adamo

www.ospiteingrato.org –  4 maggio 2010

Per più di dieci inverni, a ridosso degli anni Cinquanta e Sessanta, due scomodi intellettuali, Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini, hanno condiviso un cammino comune. Tra il 1954 e il 1968 questi straordinari intellettuali hanno potuto ascoltare, con il fine udito dei poeti, lo scricchiolio di una società millenaria che andava in pezzi e il rumore assordante e caotico della nuova modernità. Con lo sguardo attento dei critici hanno provato a comprendere i cambiamenti in atto, a deplorare il generale imbarbarimento, a contestare la pacifica idea di progresso.
Fortini e Pasolini hanno assistito e compianto la fine del mondo in cui erano nati e cresciuti e, come Cassandre, hanno preannunciato le imminenti trasformazioni senza che nessuno prestasse attenzione alle loro grida, sempre più rassegnate. Entrambi si sono opposti a una condizione che pareva inevitabile, combattendo con le armi della poesia e della critica, ma sono stati prima marginalizzati, poi definitivamente sconfitti. La loro sconfitta è dimostrata dall’anacronismo con cui oggi si leggono i loro discorsi e dalla distanza con cui si vivono le loro battaglie. La coscienza delle loro affinità li ha fatti incontrare e li ha tenuti assieme per gli anni difficili del dopoguerra e in tutte le dure transizioni degli anni Cinquanta e Sessanta. Finché lo richiedeva il contesto storico e finché era ancora credibile opporsi al capitalismo dilagante, la loro azione è stata solidale e vicina. Quando, però, il nemico è diventato più occulto, meno classificabile e soprattutto quasi onnipresente, hanno optato per strade differenti. L’urgenza di parlare, di agire, di far sentire la propria voce di dissenso in anni in cui sembrava si dovesse decidere il futuro giorno per giorno, metro per metro, li ha accomunati per anni. La loro opposizione, sempre in trincea, fatta di piccole battaglie quotidiane, ricorda non poco il clima della Resistenza di cui entrambi si sentivano figli; non è casuale che le loro prime poesie si muovano non di rado su uno sfondo bellico. Le differenze caratteriali e formative, però, con il passare del tempo diventano di ostacolo a una completa intesa tra i due; forse solamente nel breve periodo successivo gli sconvolgimenti del 1956, nel comune dissenso e biasimo verso il Partito Comunista, sembra esserci una completa affinità.
Gli anni di «Officina» regalano a entrambi grandi entusiasmi e non pochi fraintendimenti; il periodo tra il ‘55 e il ‘59 è uno specchio fedele dell’instabile equilibrio instauratosi tra due intellettuali di sinistra, usciti trionfatori dalla Resistenza, alle soglie del neocapitalismo.
Per entrambi l’esperienza bellica rappresenta un momento di consapevolezza, di presa di posizione morale e, conseguentemente, politica, ma i modi e i luoghi della loro partecipazione riflettono precocemente caratteri che diverranno, nel volgere di una decina di anni, poco conciliabili. L’8 settembre 1943 segna per entrambi il passaggio a una maggiore consapevolezza civile. Nel giorno dell’armistizio, quando Fortini decide di organizzare una diserzione con i compagni d’armi, presto sventata, Pasolini rifiuta il comando di consegnare le armi ai tedeschi. La loro fuga e le scelte successive incidono profondamente sul carattere dei due: Fortini si reca a Zurigo assieme ai rifugiati di tutt’Europa, Pasolini torna a Casarsa a vivere con i genitori. Se il poeta fiorentino decide di imboccare la strada della grande insurrezione, insieme ai rifugiati di tutt’Europa prima e prendendo parte alla Repubblica partigiana dell’Ossola poi, Pasolini preferisce vivere da spettatore il movimento di liberazione, assistendo all’arruolamento del fratello nelle brigate antifasciste e alla sua tragica scomparsa. La fine della guerra comporta l’adesione del primo al Partito socialista e del secondo al Partito comunista. Le scelte, benché diverse, rispecchiano orientamenti molto affini. Fortini scrive:

La tessera socialista era per me quasi esclusivamente un documento che mi autorizzava a parlare con e ai comunisti, i soli che mi interessassero realmente1.

La redazione di "Officina".
La redazione di “Officina”

Quando Pasolini decide di fondare «Officina», «rivistina molto povera e eroica»2, e chiede il contributo di Fortini per collaborare con «la massima libertà – specie con scritti di fiancheggiamento critico e ideologico»-, lo fa perché riconosce nel compagno la stessa propria «urgenza ‘storica’ […] fuori da ogni apriorismo». Pasolini è giovane, benché abbia alle spalle una raccolta importante come La meglio gioventù, e la simpatia e la stima di Gianfranco Contini; le sue liriche, tuttavia, riflettono ancora un carattere acerbo, in fieri. Sulla soglia degli anni Cinquanta il poeta bolognese ha solo sfiorato la pesante eredità marxista e da poco ha avuto occasione di leggere le parole di Gramsci, fondamentale guida per gli anni a venire. Fortini, di cinque anni più grande, ha maturato, prima di avvicinarsi a «Officina», una grande esperienza in campo critico, letterario e ideologico. Cresciuto a Firenze, quando l’ermetismo degli anni ’30 dava i migliori frutti, vive una stagione straordinaria a contatto con alcuni dei maggiori intellettuali. La precoce conoscenza di Noventa lo indirizza precocemente lontano dall’orizzonte ermetico, aprendogli nuove prospettive tramite la «Riforma letteraria». L’esperienza bellica viene vissuta a contatto con intellettuali dissidenti, non solo al regime ma anche all’ortodossia comunista (come Silone), facendogli incontrare, a casa del professor Theophill Spoerri, il maestro di critica stilistica, nonché traduttore dal tedesco Cesare Cases e il filosofo marxista Lucien Goldmann.
Al ritorno da Zurigo Fortini trova l’occasione di partecipare con Vittorini, altro comunista dissidente, al progetto del «Politecnico», cui partecipa con grande dedizione. Finita l’esperienza del «Politecnico», la conoscenza personale di Renato Solmi, legato a lui dal periodico «Discussioni», gli fa scoprire prima di molti compagni la fondamentale traduzione dell’adorniano Minima moralia, aprendogli la conoscenza di uno dei massimi esponenti della scuola di Francoforte. Quando nel ’46 vede la luce Foglio di via e altri versi, la molteplicità di contributi confluisce armonicamente. Anche se la struttura del libro manca ancora di coesione, sistemazioni e limature, in parte apportate nell’edizione del ’67, lo stile fortiniano comincia già ad essere visibile.
All’avvicinarsi del ‘54, anno del primo incontro tra i due protagonisti, Fortini ricorda di essere, dal punto di vista poetico, in una fase di angosciosa3 stasi da cui emerge probabilmente grazie alla conoscenza di Pasolini. «Officina» in cinque anni di pubblicazioni, compresi i numeri nell’edizione Bompiani, vede congiungersi due strade, quella di Pasolini e quella di Fortini, che sotto molto aspetti erano corse a lungo parallele e che, a causa di decisive deviazioni, diverranno nel volgere di pochi anni totalmente inconciliabili. In modo paradossale, ne La polemica in versi di Pasolini e in Al di là della speranza di Fortini, poemetti usciti sul numero settimo e ottavo della rivista a cavallo tra il  ’56 e il  ‘57, si può cogliere la maggiore vicinanza e, nello stesso tempo, la prima consapevolezza di una lontananza che diverrà abissale.
Negli anni in cui crolla il mito comunista e in cui ogni potere deve essere nuovamente verificato, i due scomodi compagni si ritrovano uniti nel tentativo di correggere gli sbagli, profeticamente annunciati, in vista di un nuovo socialismo meno propagandistico e più attento a proteggere le verità, capace di accettare critiche e di rigenerarsi.
I due poemetti rivendicano le precedenti esperienze, originali e dissidenti, ma provano anche a cercare, uno nell’altro, i reciproci errori:

che ci si scambiasse accuse con tanta durezza e schiettezza appariva (…) come un anticipo di fraternità comunista (4).

Sulle pagine della rivista bolognese si attua uno scontro di sensibilità che vede opporsi Pasolini, capace di trasfigurare in un’estetica visione il dramma di una generazione, e Fortini che cerca di superare lo sconvolgimento storico per scrutare Al di là della speranza. La differenza è tra chi piange sulle Ceneri di Gramsci calpestate e chi prova a ricominciare da capo un discorso nuovo, giungendo fino a proporre, sulle pagine di “Ragionamenti”, Proposte per una organizzazione della cultura marxista italiana. Queste differenze emergono anche nelle loro poesie: se Pasolini tende a esaltare l’aspetto personale del dramma, interiorizzando conflitti visibili all’esterno e non di rado trasfigurandoli in estetiche visioni, Fortini si focalizza sui destini generali e, quando pure descrive qualche esperienza privilegiata, la utilizza come paradigma della società, o di parte di essa. I conflitti irrisolti di Pasolini lo rendono profondamente negativo e Fortini, contestando  questo suo carattere, critica: “non è lui che fa i problemi, ma sono i problemi a fare lui, lo rammenti” (5). Il poeta fiorentino che, invece, è alla continua ricerca di una sintesi, di hegeliana memoria, trova pace in una nuova prospettiva in grado di superare le contraddizioni del presente. Concezioni, queste, che attirano da parte dell’amico accuse di “misticismo”, le quali si uniscono a quelle di “moralismo” (6) dovute alla continua correzione del pensiero proprio e altrui, come scrive Pasolini nella Polemica in versi e in una lettera di inizio ’57. L’unica cosa certa è che, a distanza di qualche anno, quando ormai le distanze non sono più colmabili, Pasolini ammette l’importanza di un rapporto che lo ha segnato nel profondo:

tu esisti in me: esisti tanto da essere l’ideale destinatario di quasi tutto quello che scrivo. Spero di esserlo un poco anche io per te (7).

Fortini sembra rispondergli nel 1965 all’interno del volume Verifica dei poteri, rammentando l’importanza che ha avuto in lui lo scomodo compagno di strada:

Nulla certo avrei scritto senza le parole di contraddittori o di avversari ma soprattutto senza l’eloquenza comprensibile e i silenzi dei veri nemici (8).

In queste parole emerge quanto questo rapporto e questa conoscenza, in bilico tra rancore e sincerità, abbia contribuito in modo decisivo alla maturazione di entrambi i poeti.

[idea]Note[/idea]

  1. F. Fortini, La generazione degli anni difficili, in Id.,Un dialogo ininterrotto, Torino, Bollati Boringhieri 2003, p. 33.
  2. P. P. Pasolini, Lettera a Franco Fortini, 2 marzo 1955.
  3. F. Fortini, Attraverso Pasolini, Milano, Einaudi 1994, p. 56.
  4. F. Fortini, Attraverso Pasolini, p. 80.
  5. F. Fortini, Risposta aIl metodo di lavoro, «Città aperta» , in Id., Attraverso Pasolini, p. 89.
  6. P. P. Pasolini, Lettera a Franco Fortini, 10 gennaio 1957.
  7. P. P. Pasolini, Lettera a Franco Fortini, 31 dicembre 1961.
  8. F. Fortini, Prefazione alla prima edizione, in Id., Verifica dei poteri, Torino, Einaudi 1989 (Gli Struzzi, 364), p. 303.