Fabio Mauri: “Intellettuale” 1985 e “Vangelo secondo Matteo” di/su Pier Paolo Pasolini

Fabio Mauri: “Intellettuale” 1985* e “Vangelo secondo Matteo” di/su Pier Paolo Pasolini

“Il film (l’opera) rappresenta tutte le opere. L’autore rappresenta tutti gli autori (gli intellettuali). In quella assolutezza che l’opera anche la più spregevole simula sempre, essa è una forma di compiutezza, di verticalità buttata fuori dal tempo, sottratta all’usura della durata.
L’opera è sempre liberazione e l’opera a contenuto politico o ideologico è doppiamente liberazione, perché dà per conosciuti, se non addirittura per risolti, i problemi che ha affrontato. Ma in questa stazione ciò di cui si è creduto di sbarazzarsi, viene sadicamente ributtato sull’autore. Il film (l’opera) risulta proiettata sul corpo del regista: fa da schermo il torace fasciato dalla camicia bianca. Il torace assume così il valore di specchio, di radiografia della propria soggettività intellettuale, di coscienza”.

Alberto Boatto, Intellettuale/Roma/1975

Le righe di Alberto Boatto a proposito di Intellettuale, genere di “performance” eseguita alla Galleria Comunale di Bologna con Pier Paolo Pasolini, nel 1975, individuano bene cosa vi accadde. Su queste “Proiezioni” io non ho mai scritto che brevi testi teorici. Mi ha impedito di parlarne distesamente l’eccesso di identità dell’“azione” stessa.
Ideata in laboratorio, si resta sbigottiti dall’evidenza di ciò cui si assiste, colpiti dalle sue violente implicazioni. La proiezione provoca un effetto singolare: rivela fisicamente la nascita del “segno intellettuale”, “dentro” il corpo dell’autore. Possiede la precisione tecnica di una radiografia dello spirito.
Comporta anche dell’altro: l’imposizione di una ‘passione’ che l’autore subisce, per cui sembra rispondere corporalmente di quanto ha concepito.
Il film ne trafora con violenza la funzione ritorcendosi in una forma complessa di immagine. Chi osserva resta interdetto dalla insolita scena, per il significato che si aggiunge, ed è la presenza stessa dell’autore, e non smette di interferire ‘significativamente’ durante l’intera narrazione dell’opera.
Pier Paolo Pasolini, come in un’altra occasione Miklós Jancsó, accettò di sottoporvisi e ne fu subito preso. Si immerse nello sforzo di ricordare attimo dopo attimo cosa ritrascorreva su di lui, quale dettaglio di immagini, quali forme. Obbligato da quell’“esercizio spirituale” a riandare alle causali profonde dell’opera, che non poteva riverificare con gli occhi, se non per minime varianti di ombra e di luce. Illuminato dal solo raggio del suo film, sembrava subire una responsabilizzazione dei contenuti reali dell’immaginazione. Come se, anziché vederli, dovesse contrastare una loro aggressione di ritorno. Il sonoro, per altro, come le dizioni “verbali”, o l’onomatopea dei rumori, o la musica, divengono protagonisti, “segni” coordinati per la ricostruzione dell’immagine divenuta, per l’autore, invisibile.

Ma contemporaneamente avviene un altro fenomeno: l’identità d’autore, resa materialmente evidente, si riconferma in modo efficacemente elementare. Autore e opera formano una scultura di carne e di luce, una unità compatta. Dimostrano, con la forza di una ‘visione’, d’essere una cosa sola. In quei tempi di dispute concettuali, la mia intenzione, nell’eseguire questa ‘performance’, era investigativa, come di fronte ad un esperimento di fisica e, assieme, ideologica. Attraverso quel rito intendevo richiamare ad una evidenza: che le forme espressive non erano che significati ‘reali’, nel senso di implicite a l’universo ‘morale’ dell’uomo. Il termine ‘intellettuale’ comprendeva, per me, tale dato.
È un assioma non così elementare come sembra, per gli interlocutori delle varie scuole ‘concettuali’ del tempo. Intendevo ricreare un legame ‘fisico’ tra poesia e mondo fuori della tautologia concettuale, che di fatto lo escludeva, richiamando, pur con diversi mezzi e da provenienze non ‘realiste’, il concetto indispensabile di realtà, che in Pier Paolo Pasolini era stato sempre instancabilmente centrale, mai trasgredito.
Per via d’emozione, infine, intendevo ribadire il concetto, (che l’opera stessa suscitava e l’evento di apposizione all’autore doppiava), che l’arte non può che erigere un sistema di grande inattualità, cioè il mondo elementare dei valori. Era la funzione obbligatoria del linguaggio. Ed era quasi impossibile sottrarsi all’eloquenza dimostrativa dell’arte, come la seduttiva evidenza dell’azione dimostrava.
Questa azione del 31 maggio 1975 a Bologna, con Pier Paolo Pasolini, fu una “scena” in più della nostra amicizia, e vita. Senz’altro della mia. Uno di quei momenti in cui l’agitazione delle passioni sembra caduta come un vento che smette, per lasciare posto a un paesaggio tersissimo di senso, in cui ogni cosa, anche il passato, e i suoi rischi stupefacentemente superati, rientrano in un ordine intelligente, teso a farci divenire quello che eravamo in quella ‘intellettuale’ impresa: sopravvissuti, amici, sereni in fondo e dignitosi per i nostri ideali di poesia o d’arte cui eravamo rimasti, al di là di ogni personale risultato, fedeli.

Era poco prima che Pier Paolo Pasolini morisse. Quella serata a Bologna, così decisiva perché così finale e limpida, io la vedo come una conferma. Di una dolce fermezza. Quella della poesia, intenta nel catturare il mondo e le cose perché siano. O per spiegarle e, fatalmente, farle capire.

Fabio Mauri

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* Pier Paolo Pasolini. “Una vita futura. La forma dello sguardo”, catalogo della mostra ai Mercati Traianei, Roma, 1985