Essere inattuali e diffidenti, di Francesca Romana Merli

Essere inattuali e diffidenti

di Francesca Romana Merli

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E’ questa l’eredità e la lezione più preziosa che ci ha lasciato un grande intellettuale
che sapeva individuare il potere nascosto in ogni discorso

Pasolini ci serve inattuale. Credo che oggi ci possa servire solo a patto di mantenerlo inattuale; invece renderlo attuale, parlare di cosa avrebbe detto se fosse vivo è un altro modo per renderlo normale. E anche innocuo.

Si dice che Pasolini è stato santificato, e l’uso che si fa della sua opera qualche volta sembra un po’ acritico, semplicistico, un uso che non sarebbe piaciuto a Pasolini, ma di cui Pasolini e il suo atteggiamento verso la comunicazione e la presenza pubblica dell’intellettuale sono in parte responsabili. In un articolo dello scorso novembre sul Corriere della Sera Franco Cordelli spiegava che Pasolini è diventato il Santo Patrono Intellettuale d’Italia anche perché nella fase più aspra del suo attacco al degrado antropologico italiano si era lasciato andare a «frasi brutte, perfino stupide, sicuramente arroganti» e oggi seguirlo su quella strada di generico disprezzo e superficiale moralismo è facile e redditizio. Se l’industria culturale si appropria subito dei concetti più corrivi e “scandalosi” che l’intellettuale esprime magari per fretta o ansia o ingenua fiducia in se stesso, non si può negare che Pasolini quello scandalo spesso lo cercava, per caparbia provocazione, per l’intenzione di mettere in discussione tutto, e anche forse perché era meno abile di quanto credesse nell’orientare l’industria culturale sulla strada che lo interessava: diceva che per parlare del potere bisogna avere un posto in quel potere e questa convinzione è trasparente nei suoi discorsi, tanto trasparente che a volte rischia di rendere opaco il lavoro vero, il lavoro di parlare del potere. Questo lavoro sul potere dovrebbe essere una delle eredità di Pasolini, se di eredità proprio si deve discutere.

Pasolini ha fatto in modo che l’artista e il personaggio raccolti nel suo nome non potessero più essere separati, un fatto che nella lettura che se ne può dare oggi non è né giusto né sbagliato, è un fatto e va osservato e studiato. La critica più interessante ne trae conseguenze importanti, intorno al significato del corpo di Pasolini che è un corpo presente molto più di tutti gli altri corpi di intellettuali e scrittori della sua epoca, autori di cui conosciamo l’opera ma non ricordiamo i tratti del viso, i gesti, i movimenti. Di lui ricordiamo tutto, il suo volto ci è noto, e ci era noto anche prima dell’occasione del trentennale. Forse è il destino che tocca ai santi, diventare santini, immaginette, ma credo che anche questo faccia parte, abbia fatto parte, di una strategia pasoliniana. Lui sentiva il dovere della presenza invasata, diceva così, se avesse taciuto, se non si fosse mostrato sarebbe stato superato, travolto, dimenticato. Credo che tutti siamo affetti dalla sindrome pasoliniana secondo cui un libro un film una storia ci interessano solo se parlano in un modo o nell’altro di noi, ma qualche volta riusciamo a non manifestarlo, lui mai. Lui lo dichiarava, e ne faceva la sua forza. Quando leggo Pasolini che descrive un momento di un romanzo, un passaggio di una poesia, il carattere degli indiani, quello che sto leggendo è Pasolini che descrive se stesso. Anche al cinema, ovviamente. In questo va cercata la sua grandezza, anche la sua grandezza, insieme a scelte meno grandi, insieme ai discorsi più facili e arroganti e a volte sbagliati di cui sarebbe giusto considerare facilità arroganza e errore piuttosto che farli diventare profondi, tolleranti, condivisibili.

Malipiero, City, 2002
Oggi è inutile e dannoso santificare Pasolini, non ha senso definirlo un profeta, perché i profeti parlano per intuizione mistica mentre nelle analisi di Pasolini non c’è nessun misticismo, se ha saputo leggere nella sua epoca e persino a volte parlarci della nostra è perché stava attento, sapeva guardare la storia e la cronaca, particolarmente quando non si lasciava prendere dall’ira e da quel bisogno di dire l’ultima parola come fa il maestro a scuola. Oggi Pasolini si può avvicinare non tanto separando l’artista dal personaggio, che appunto non è possibile e non è nemmeno necessario, non tanto ribellandosi a una creatività così profondamente connotata dall’autobiografia (che è un concetto su cui i critici – giustamente – si accapigliano, perché non si dovrebbe far derivare seccamente le espressioni dalle esperienze ma non si può nemmeno pensare che quello che siamo non coincida con quello che scriviamo), quanto scegliendo cosa è importante e cosa meno, andando a vedere se sotto i discorsi che funzionano meglio perché sono “scandalosi” non c’è qualche indicazione che sorprende davvero perché è silenziosa e sussurrata. Credo non si possa evitare di avvicinarsi a Pasolini con ambivalenza, non si può evitare perché a digerirlo tutto si rimane schiacciati; credo sarebbe interessante leggere più cose di Pasolini “storico”, analista dei misteri italiani, intellettuale che sapeva collegare fatti diversi fra loro piuttosto che conoscere quegli aspetti minori della sua vita professionale e dei rapporti con gli altri intellettuali, insomma le nevrosi, che qualcuno (insospettabile, come è prevedibile, perché i suoi segreti li conosce chi lo conosceva bene) a volte ci racconta come fossero fonti critiche. Mi piace quando Pasolini insegna a diffidare dei discorsi, di tutti i discorsi, perché il potere si annida lì, nei modi di pensare e anche di parlare, mi piace quando spiega che al razzismo, all’omofobia, al disprezzo del diverso si risponde facendosi ancora più diversi, rifiutando di farsi uguali. Questa caparbia dichiarazione di consapevolezza potrebbe mantenere la sua forza dopo che la schiuma dei suoi discorsi meno interessanti sarà affiorata e superata. E in questo sarebbe la sua preziosa inattualità.

L’autrice di questo articolo ha pubblicato il libro Lo specchio a colori – Pasolini trent’anni dopo (Editrice Zona, 2005)

Dalla premessa al volume: “Pier Paolo Pasolini: il mistero di una vita libera e di una morte tragica. Vita pubblica e privata di un artista: le amicizie e le passioni, il rapporto con lo spettacolo e la politica, fino al processo a Pino Pelosi. Tra romanzo e reportage, Francesca Romana Merli esplora le zone del linguaggio e dell’eros, i ricordi, il mito, la tenerezza di Pasolini, dall’interiorità creativa al disagio della coscienza civile. Ce ne riporta il testamento culturale attraverso le opere letterarie e cinematografiche, ricostruendo il rapporto dell’artista con il mondo dello spettacolo e della politica, a trent’anni dal tragico epilogo e dal processo che ne seguì.
“I movimenti del viso di Pasolini sono diversi da come si pensa. Un poeta così intenso, un pensiero così potente e poi un sorriso giovanile che mette discretamente le parole tra virgolette come per semplicità, per non essere trombone, perché tanto anche solo se apre bocca l’artista è scandaloso. Diceva che lo scrittore quando è sincero e appassionato è sempre una contestazione vivente e questo vuol dire quasi tutto, il resto si scopre lentamente, ti rileggi i romanzi dopo venti trent’anni, gli scritti eretici e corsari dopo quindici, le poesie dopo pochi mesi e i libri e gli interventi su di lui e cominci a camminare nel suo percorso, attraverso fatiche piacevoli e domestica rabbia e cominci da capo a farti domande senza risposta, a cercare senza trovare.”

copertina-specchio-colori

[info_box title=”Francesca Romana Merli” image=”” animate=””]E’ nata a Roma nel 1961, è regista teatrale, autrice radiofonica e aiuto regista cinematografica. Nel 1998 ha pubblicato il romanzo Hardcore. Il suo racconto Cibo e aria è presente nella raccolta Italiane duemilaquattro. Nuove voci della narrativa italiana.[/info_box]