E in un cinema di periferia il grido: “Voto comunista”!, di Gianni Bogna

E in un cinema di periferia il grido: “Voto comunista”!

di Gianni Bogna

«I Quaderni de L’Ora – Quaderni di inchiesta, dibattito, analisi politica e sociale»
Novembre 2012 – Anno 2 – n. 8

 

“Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947. Voto comunista perché ricordo la primavera del 1965, e anche quella del 1966 e del 1967. Voto comunista perché, nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro. La natura ci ha dato la facoltà di ricordare (o sapere) e di dimenticare (o non sapere), volontariamente o involontariamente, ciò che vogliamo: qualche volta la natura è giusta. Un’altra volta vi dirò – dirò a voi giovani, soprattutto a quelli di diciotto anni – che cosa, nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare e sapere. Oggi, son qui per dirvi che cosa voglio ricordare e sapere…”.
Si apriva così l’intervento che Pier Paolo Pasolini svolse, la mattina dell’8 giugno 1975, per motivare il suo voto al Pci. L’incontro era stato promosso da noi giovani comunisti romani al cinema Jolly, a due passi dalla via Tiburtina. Dunque in un cinema di periferia (oggi, dopo anni di chiusura, è una multisala), e già questo dimostra come l’iniziativa non fosse particolarmente gradita al partito.
Pasolini era in quel momento lo scrittore “corsaro” che quasi quotidianamente, dalla prima pagina del «Corriere della Sera», interveniva sulle vicende italiane, con analisi sempre imprevedibili e spiazzanti, che venivano generalmente contestate tanto da destra come da sinistra. Su «L’Unità», su «Paese Sera», non si contavano gli articoli contro di lui, contro le sue tesi lucidissime e anticipatrici.
Noi giovani lo sostenevamo non solo perché eravamo affascinati dal suo carisma e dalla sua intelligenza, ma anche perché condividevamo il suo pessimismo sullo stato del nostro Paese e in particolare sulla condizione dei giovani. Il partito, appagato dalla vittoria nel referendum sul divorzio e dal trend positivo che conosceva in quel momento, pensava che l’Italia stesse svoltando a sinistra e fosse pronta a grandi cambiamenti. Noi no, anche perché percepivamo che i giovani per primi stavano vivendo una profonda crisi di ideali e di prospettive.
Pasolini comprese che noi non lo cercavamo per ragioni strumentali. Al contrario, il nostro era un segno di affetto e di stima. E cominciò a stabilire con noi un dialogo fecondo, che si sarebbe concluso solo qualche mese dopo, quando, purtroppo, fu assassinato.
Si è molto discusso già allora su quella morte, e molto si discute ancora. Non voglio tornare qui sulle ipotesi che si son fatte e si stanno ancora facendo su ciò che realmente accadde all’idroscalo di Ostia la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Mi preme, però, testimoniare che, pur pessimista sulle sorti dell’Italia, Pasolini non era affatto, in quel momento, un uomo rassegnato e triste. Tutt’altro. Mai l’avevo visto tanto combattivo e determinato come in quel periodo. Il dialogo con la federazione giovanile comunista significava anche questo.
Dopo le elezioni (vinte dal Pci, come lui stesso aveva previsto senza per questo concludere che le cose stessero, appunto, per volgere al meglio), i contatti tra noi si fecero febbrili. Di questo è rimasta una traccia precisa nei suoi articoli sul «Mondo» e sul «Corriere», poi raccolti nelle einaudiane Lettere luterane. In quegli scritti Pier Paolo parla dell’Italia e degli italiani con accenti spesso apocalittici, ma risparmia sempre esplicitamente – e forse persino troppo generosamente – i giovani comunisti.
Ai primi di settembre accettò di partecipare a un sit-in di fronte all’ambasciata spagnola. Il franchismo, pur al tramonto (il caudillo morirà di lì a poco), faceva ancora delle vittime. In tutta Italia si manifestava. A Roma i giovani scesero in piazza. Pier Paolo si mescolò alla folla (la foto che lo ritrae vicino a Veltroni e Adornato è stata scattata in quella occasione). Poi, a sorpresa, prese la parola. Sembrava tornato ai tempi in cui, giovane, era stato segretario della sezione comunista del suo paese.

La festa sulla terrazza del Pincio
Alla fine del mese era prevista la grande festa dei giovani comunisti romani sulla terrazza del Pincio. Fu un avvenimento memorabile. A decine di migliaia, ogni sera, i giovani di Roma parteciparono ai concerti, alle proiezioni, ai dibattiti in programma. La prima sera si esibì Gino Paoli (per la prima volta nella sua vita di fronte a un pubblico da stadio). La sera successiva Fabrizio De André (anche per lui era, praticamente, la prima volta che ciò accadeva).
Il dibattito con Pasolini, sui giovani e il dramma della droga, era in cartellone proprio dopo il concerto, perché Pier Paolo non aveva che quel “buco” nel suo programma frenetico di lavoro (stava, tra l’altro, finendo di montare Salò, doveva fare dei viaggi all’estero, ecc.).
E così il suo dibattito slittò oltre la mezzanotte. Eravamo tutti preoccupati e un po’ perplessi. Pasolini era Pasolini, ma non eravamo sicuri che a quell’ora sarebbero rimasti in tanti, come sarebbe stato giusto, per sentirlo parlare. La nostra preoccupazione si rivelò presto infondata. Almeno cinquemila erano i giovani assiepati in attesa del suo dibattito! A quel punto ci si pose il problema opposto. Vista quella folla per l’appunto da stadio, Pasolini, che nel frattempo ci aveva raggiunto, mostrava una certa ritrosia a intervenire. “Non me la sento, non ci sono abituato”, ci disse sommessamente, con quella sua voce inconfondibile, dolce e gentile.
Gli facemmo notare che tutti quei giovani erano lì a quell’ora solo per lui, e che non li potevamo deludere. Annuì, e si convinse a salire sul palco. Attorno al quale, nel frattempo, si erano radunate molte persone. Tra queste, Marco Pannella, che in quel momento era uno dei suoi interlocutori privilegiati, e Luigi Petroselli, il futuro sindaco di Roma, ancora “soltanto” segretario del Pci romano. Fu proprio lui a complimentarsi con Pasolini per l’articolo che aveva scritto pochi giorni prima sul «Corriere» invocando un processo anche contro il ministro democristiano Donat-Cattin. “Sono stato più efficace del solito proprio perché ho potuto fare dei nomi”, fu la risposta dello scrittore.
Finito il dibattito (dovevano essere passate le due, ma il Pincio era ancora pieno di giovani), accompagnai Pasolini alla macchina. Scendemmo a piedi alcune rampe del Pincio. Con noi era un tipo che non avevo mai visto con lui, un uomo basso e tarchiato sulla quarantina, che gli faceva da accompagnatore. Chi poteva essere? Dato tutto quello che successe in seguito, sarebbe utile saperlo. Ma ormai anche questo è solo un dubbio irrisolto, e un labile indizio.
Arrivati alla macchina, Pasolini mi accennò al libro che stava scrivendo (Petrolio, naturalmente). Me ne aveva cominciato a parlare l’anno prima, quando, assieme a altri giovani della Fgci, ero andato a intervistarlo per la nostra rivista. Potei così sbirciare qualche foglio dattiloscritto, di quelli che si usavano allora, di quella particolare carta sottilissima (detta “velina”) che, ogni volta che si faceva una correzione con la gomma, rischiava di lacerarsi o di bucarsi.
Poi, soprattutto, si soffermò su Salò, il film che aveva finito (o stava finendo?) di montare, e di cui, mi disse, gli erano state trafugate alla Technicolor alcune parti. “A voi comunisti non piacerà. È un film terribile, che non concede nulla a nessuno”. Poi, però, come per mitigare quell’affermazione, aggiunse che c’era una sequenza idealmente dedicata a noi giovani comunisti. “Ma non vi dico quale, dovrete essere voi a indovinarla”.
Frattanto, si avvicinava la data del nostro congresso, il ventesimo della Fgci. A quello romano, propedeutico a quello nazionale che si sarebbe tenuto a Genova, gli chiedemmo di partecipare e di intervenire. Accettò subito, anche se, come ho detto, era in quel momento molto impegnato. Non solo. Non passava giorno che non ci telefonasse per chiederci delle informazioni, persino sulle modalità organizzative dell’iniziativa. Voleva, per così dire, documentarsi, non venire soltanto per onor di firma, e fare un intervento, come si dice in gergo, tutt’altro che formale.
Alla fine di ottobre, mi chiamò per dirmi che sarebbe andato per pochi giorni a Stoccolma (credo per la pubblicazione in svedese di Ceneri di Gramsci) e che, rientrato a Roma via Parigi, mi avrebbe subito telefonato. Poi, con aria molto soddisfatta, mi fece sapere di avere trovato un contatto almeno all’apparenza utile per riottenere indietro le bobine rubate del film. Ma ne avremmo parlato meglio al suo ritorno.
La mattina di quel maledetto 2 novembre (il giorno dei morti, che quel giorno cadeva di domenica) pensavo fosse ancora all’estero. E così, quando sentii alla radio di un cadavere scoperto all’alba all’idroscalo di Ostia, a tutto pensai tranne che si potesse trattare di Pasolini. Tanto è vero che, quando nella tarda mattinata mi telefonò Adornato per dirmelo, pensavo non stesse facendo sul serio. Purtroppo, invece, anche se Adornato era solito fare degli scherzi, quella volta, non stava scherzando affatto.
Sulla morte di Pasolini ho avuto da subito un’opinione molto precisa. Naturalmente non so chi l’abbia ucciso, ma so per certo che sia stato ucciso in un agguato preordinato. Da chi? Perché? Sono interrogativi che ho sempre sperato, e continuo a sperare, possano essere chiariti dalla magistratura.
Un’altra cosa che so per certo è che Pasolini, diversamente da come qualcuno pensa, non aveva nessuna voglia di morire. Pasolini sentiva rabbia e dolore per come l’Italia si stava trasformando, ma, come proprio lui aveva detto qualche tempo prima, parlando con Giorgio Napolitano a un festival de «l’Unità», “[…] se accanto alla mia visione apocalittica non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero, cioè, che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare”.

*Foto in copertina: Pasolini al congresso del PCI di Pordenone (1949).