Destra e sinistra nella morte di Pasolini, di Aldo Riccadonna

Destra e sinistra nella morte di Pasolini

Aldo Riccadonna, 2 giugno 2013

Tanti anni fa è stato ucciso Pasolini. Pino Pelosi, che aveva confessato un omicidio a sfondo sessuale, ha ritrattato ed adesso afferma di essere innocente e che altri hanno ucciso Pasolini: lui era solo presente, è stato minacciato dagli assassini, finora ha taciuto per paura. Si fa di nuovo largo l’ipotesi, subito emersa trentacinque anni fa, di un agguato forse politico, una esecuzione fascista contro un comunista molto presente sulla scena italiana, una voce capace di spaccare l’opinione pubblica e politica.
Sostenere questa ipotesi rende giustizia al poeta?
Nel 1970 Pasolini gira un breve documentario nella capitale dello Yemen del nord, Sana’a, “in nome della grazia dei secoli oscuri, in nome della scan­dalosa forza rivoluzionaria del passato”[1]. Non solo le mura di Sana’a erano in pericolo, bensì lo erano anche un’intera cultura, un intero mondo, una visione del mondo coi suoi valori. Sana’a assurge a simbolo del Passato, ormai unico baluardo rivoluzionario contro il presente trionfante: questa è l’utopia pasoliniana. Egli sente che il Terzo Mondo, come lui lo aveva conosciuto, sta scomparendo irreversibilmente; la configura­zione urbana, il rapporto della città con il circondario: tutto viene distrutto per una specie di snobismo oc­cidentalizzante. Il nuovo spirito non proviene solamente dagli invasori occidentali capitalisti, ma anche da quelli comunisti. Le minoranze rivoluzionarie hanno portato la democrazia in un paese medievale. Per primi sono giunti i cinesi a costruire strade. La loro pre­senza è carismatica e “i loro corpi hanno la natura delle apparizioni”. Con le strade sono giunti i primi beni della civiltà industriale, non importa se capitalista o socialista. “La scelta neocapitalistica o socialista sono interscambiabili. Ambedue i modelli appartengono ad un mondo ugualmente avanzato, che, dall’alto della sua modernità, manda tecnici che sono, in definitiva, ugualmente repressivi […]. I feudatari, i ca­pitribù, ecc. erano certamente più vicini al popolo che non i «benefattori» occidentali o orientali [..] Voglio dire con questo che una condizione umana medioevale o preistorica è migliore di una situazione umana bor­ghese o socialista? Sì, voglio dire questo. […] Da che punto del mondo io contesto disperatamente tutto questo? È chiaro: da un punto del mondo dove urge un desiderio folle di regresso. Ma non c’è progresso senza profondi recuperi nel passato, senza mortali nostalgie per le condizioni di vita an­teriori: dove si era comunque realizzato l’uomo spendendovi interamente quella cosa sacra che è la vita del corpo”[2].
Qui non si parla più di destra e sinistra, di fascismo e comunismo, come di due mondi contrapposti. La contrapposizione è invece tra mondo contadino, preindustriale, umanistico e mondo neocapitalistico, consumistico, tecnocratico. La rivoluzione interna capitalistica, dovuta all’applicazione della scienza, “viene così a porsi come il momento più importante dell’umanità dopo quello della prima seminagione lungo il Nilo dodicimila anni or sono – che, ponendo le basi della civiltà agricola e artigiana, resta il segno dominante di tutta la sto­ria e l’arte umana fino a pochi anni fa”[3]. Questa “nuova era dell’umanità” che relega irreversibilmente nel passato l’altra epoca durata dodicimila anni, è uno dei temi fondamentali di tutta l’opera e il pensiero pasoliniani: “Non siamo più di fronte […] a «tempi nuovi», ma a una nuova epoca della storia umana: di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche”[4].
La scandalosa forza rivoluzionaria del passato è un’idea che si affaccia anche in altri autori. Certamente in Pasolini è prorompente ed assoluta – ma egli non è voce del deserto. “Mentre il progresso scatenato si rivela come non immediatamente identico al progresso dell’umanità, il suo contrario può rappresentare il suo ultimo rifugio”[5]. Il contrario è ovviamente il regresso. Ma Pasolini non scorge più alcun futuro, se non quello neocapitalistico: “Io sono una forza del Passato. \ Solo nella tradizione è il mio amore”[6]. È la tragedia di un sopravvissuto. Eppure il poeta è più moderno di ogni moderno: il suo privilegio d’anagrafe lo pone nella condizione di esser vissuto nella vecchia era dell’umanità e di aver subìto lo smacco della sua rovina. Pasolini rivendica con orgoglio la comprensione profonda e drammatica del tempo pre­sente, pur essendo egli un sopravvissuto di un’altra epoca, oppure proprio per questo: solo chi è testimone dell’alterità può comprendere, mentre è dubbio che coloro che si sono buttati trionfalmente e ottimisticamente nel nuovo mondo ed hanno dimenticato o non vissuto per nulla l’altro mondo, posseggano un barlume delle differenze abissali tra i due. Per molti Pasolini fu un inattuale, un pre-moderno, un regressivo, un anti-laico, non capì la nuova civiltà industriale e l’illuminismo moderno – eppure pochi come lui ne seppero cogliere i sostrati profondi. Solo chi comprese alle radici l’attualità poté farne una critica così pregnante e densa di significati. “Essa [la filosofia critica] è ad un tempo estranea all’esistente e capace di comprenderlo intimamente”[7].
L’eretico Pasolini, che sta abbandonando la classica dicotomia destra-sinistra, si chiede se le parole «sviluppo» e «progresso» siano sinonimi oppure delineino due cose opposte. Lo «sviluppo» appartiene alla destra, agli industriali che intendono potenziare la produzione ed il consumo. I consumatori di beni superflui sono d’accordo con questo sviluppo, in quanto li affranca dalla povertà con conseguente abiura dai valori antichi. Invece il «progresso» lo vuole la sinistra, che intende bat­tersi idealmente e materialmente per la fine dello sfruttamento. È chiaro che un progresso di tale specie abbi­sogna di uno sviluppo materiale dei beni (ed è ciò che ha fatto l’URSS ai tempi di Lenin e di Stalin). In Italia e nel tempo presente (anni ’70), tuttavia, lo sviluppo è solamente quello consumistico: quindi la sinistra che vuole il progresso deve accettare questo sviluppo ormai consolidato. Questo per Pasolini è contraddittorio: bisogna sempre avere in mente la diversità dell’idea di progresso da quella di questo sviluppo. Dun­que attualmente sviluppo e progresso sono concetti opposti e il ruolo dei comunisti dovrebbe essere quello di fare in modo che coincidano, ovviamente con la realizzazione di un altro sviluppo che sia diverso dall’odierno. Tuttavia anche l’idea di progresso sembra relegata nel passato umanistico, che viene superato, travolto dallo sviluppo, che si presenta come il massimo del benessere assieme al massimo dell’alienazione. A questo sviluppo, secondo Pasolini, bisogna ribellarsi, perché è un errore pensare che sia l’unico possibile.
Il 1973 è l’anno della crisi economica di tutto l’Occidente. Per Pasolini è necessario tornare indietro e ricominciare daccapo: egli precisa di non rifiutare la tecno­logia, bensì questa tecnologia. Tornare alla povertà e andare avanti saltando l’epoca neocapitalistica, che è stata un malaugurato incidente della storia. L’ultimo Pasolini, pur deluso, ha ancora questa speranza utopi­stica ed antistorica: la recessione dimostra che il neocapitalismo non è l’unico sviluppo attuabile, esso ha dimostrato i suoi piedi d’argilla. Allora i comunisti, a cui il poeta instancabilmente si rivolge, non devono più aiutare questo sviluppo, ma opporvisi.
Pasolini dice di provare

una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse un male. Affermazioni reazionarie, che io tuttavia sapevo di fare da una estrema sinistra non ancora definita e non certo facilmente definibile[8].

Io pronuncio da qualche tempo proposizioni reazionarie. E sto pensando a un saggio intitolato «Come recuperare alla rivoluzione alcune affermazioni reazionarie?»[9]

Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata: non dico i suoi valori – che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire – ma le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, ché tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata[10].

Durante il fascismo, l’Italia era rimasta intatta, nella sua miseria e nella sua cultura «popolare»: il fascismo aveva coinvolto e corrotto alcune centinaia di migliaia di italiani, gli altri quaranta milioni non erano stati «toccati» dal fascismo, perché la repressione fascista era ancora una repressione di tipo ar­caico, che richiedeva sottomissioni, ma non era in grado di trasformare se non superfi­cialmente i vecchi modelli umani.
Il rimpianto del passato è anche rimpianto del fascismo. Qualcuno ha voluto equivocare su questa comparazione, ma per Pier Paolo Pasolini era una comparazione casuale, essendo un caso che lui avesse co­nosciuto il mondo “com’era prima dello sviluppo” in epoca fascista. Da notare che Pasolini accomunava al fascismo anche i primi vent’anni di potere democristiano, il quale non fu altro che una continuazione di quello precedente. “La fine del fascismo segna la fine di un’epoca e di un universo. È finito il mondo conta­dino e popolare”[11]. Il fascismo era un regime solo di facciata, che lasciava sussistere l’alterità, le mille alte­rità delle varie culture. “Il fascismo ha un fascino che nessuno finora ha mai voluto non solo ammettere, ma neanche osservare imparzialmente. Esso è stato il «male» in un universo in cui il «bene» era in realtà invincibile. Esso ha profanato qualcosa che non era profanabile. […] È la povertà che ha reso per molti secoli il mondo un sacrario improfanabile”[12]. Anche il fascismo comunque, dove ancora esiste obsoleto, è anch’esso una barriera al neocapitali­smo (ed infatti quest’ultimo non sa che farsene del fascismo, ed anzi lo ritiene una palla al piede). Anche se il fascismo protegge il passato solo a parole e distorcendo i valori reali popolari, basati sulla famiglia e sulla religione, con la retorica, “comunque i villaggi delle Madonie e Sana’a sarebbero stati salvi un poco più a lungo in regime fascista: peccato davvero non poterlo sopportare!”[13]
Pasolini si fa un vanto di essere accusato di conservatorismo, perché questa è una cosa che poteva terrorizzare una persona dieci anni prima, negli anni ’50 o ’60, ma poi le cose sono cambiate, e cita il padre della pedagogia americana, della permissività totale, assoluta, Benjamin Spock, quello sulle cui teorie si è fondata tutta la pedagogia di questi ultimi anni: anche lui ha fatto marcia indietro, anche lui non ha paura di essere chiamato reazionario.
L’ultima raccolta di poesie pubblicata dal Pasolini vivo è La nuova gioventù, e l’ultima poesia della raccolta è Saluto e augurio. Il poeta si rivolge a un ipotetico giovane, un giovane fascista, suggerendogli quale do­vrebbe essere una vera destra, un fascismo privo di violenza, di ignoranza, di volgarità, di bigotteria: “la chiama «destra sublime», una destra che coinvolga, inglobi una serie di problemi, che è assurdo che diventino appan­naggio dei fascisti; sono valori, temi, problemi, amori, rimpianti, che in fondo valgono per tutti; se ne sono appropriati i fascisti per ragioni retoriche, per sfruttarne il senso. In realtà sono temi di tutti, però in tutti noi, in chi è progressista e democratico e vuole andare avanti, questi temi sono una specie di palla al piede, di «pesante fardello», come dice il pro­tagonista, che quindi in un certo senso lo scarica sulle spalle di un giovane dicendo: cambia il tuo modo di essere fasci­sta; avanti, dice, certo non con camicia nera, né camicia bruna, semmai camicia grigia”[14].
Costui è un giovane studente fascista; il poeta sa bene che è un morto, non libero né sincero, tutta­via magari ama ancora il greco e il latino, ha i capelli corti, vive in un paese, è insomma un retrogrado, uno degli ultimi retrogradi. Si tratta dunque di una destra utopistica, idealizzata. Pasolini vuole scaricare il “pesante fardello” sulle spalle di questo giovane. Da una parte egli si è convinto che per andare avanti con un vero «sviluppo» che sia connaturato al «progresso», è necessario abbandonare l’antico mondo della po­vertà, anche se bisogna ritornarvi per incominciare tutto da capo. Dà l’incarico di questo ritorno al giovane fascista (si ricordi come per Pasolini il fascismo era pur sempre una barriera al neocapitalismo), perché le spalle del poeta si sono ormai indebolite. Da un’altra parte questo scaricamento può significare una scon­fitta: l’umorismo, di cui Pasolini dice di essere stato invaso, un riso amaro sulle illusioni, lo porta ad adat­tarsi a ciò che non avrebbe mai pensato di adattarsi. Il poeta è stanco di lottare, mentre un giovane pieno di (stupide) illusioni potrebbe ancora entusiasmarsi per l’utopia. La Destra sublime è dentro di noi nel sonno, dice il poeta: un sogno, un mito, una fantasia, un gioco, una bugia, uno scandalo, un futuro.
Dopo essersi scaricato del “fardello”, il poeta potrà finalmente camminare leggero come un folletto, “scegliendo per sempre la vita, la gioventù”[15].
È chiaro che tutto questo non significa minimamente, come taluni hanno sostenuto, che Pasolini fosse approdato alla fine del suo accidentato percorso nell’area della destra; lui fu sempre comunista, ma questa dicotomia la sentì ormai effimera, transeunte, svaporata, obsoleta.
Se è avvenuto un delitto che intendeva scaturire dalla contrapposizione classica destra-sinistra, sia chi lo ha perpetrato, sia chi lo ha invocato per celebrare un martirio, non ha centrato il bersaglio della storia. Se Pasolini è stato ucciso da un delitto fascista, esso non appartiene a Pasolini e non gli conferisce alcun onore, oppure gli conferisce un onore ben più alto, quello che si tributa inconsapevolmente a un più moderno di ogni moderno: l’onore di non essere compreso.


[1] Dall’appello all’UNESCO letto da P.P.P. (ora in Laura Betti, Michele Gulinucci (a cura di), Pier Paolo Pasolini: Le re­gole di un’illusione. I film, il cinema, Associazione «Fondo Pier Paolo Pasolini», Milano, Garzanti, 1991, p. 265).
[2] Dall’intervento di P.P.P. alla “Conferenza stampa della Lega italo-araba”, Roma, ottobre 1974 (ora in L. Betti, M. Gulinucci, op.cit., pp. 267-268).
[3] P.P.P., Dal laboratorio (Appunti en poète per una linguistica marxista), in Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1977, p. 65).
[4] P.P.P., Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975, p. 164.
[5] Theodor W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1951 (tr. it. di Renato Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, 1979, p. 150).
[6] P.P.P., Poesia in forma di rosa, Milano, Garzanti, 1976, p. 22.
[7] Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, Dialektik der Aufklärung, Philosophische Fragmente, Amsterdam, Querido Verlag, 1947 (tr. it. di Lionello Vinci, Dialettica dell’illuminismo, 1967, p. 261)
[8] P.P.P., Scritti corsari, cit., pp. 224.
[9] P.P.P. cit. in Enrico Magrelli (a cura di), Con Pier Paolo Pasolini, Roma, Bulzoni, 1977, p. 100.
[10] P.P.P., Scritti corsari, cit., pp. 179-180.
[11] P.P.P., Petrolio, Torino, Einaudi, 1992, p. 501.
[12] P.P.P., Descrizioni di descrizioni, Torino, Einaudi, 1979, pp. 162-163.
[13] P.P.P., Io e Boccaccio, “Espresso colore”, Roma-Mi­lano, n. 47, 24 novembre 1970 (ora in L. Betti e M. Gulinucci, op.cit., p. 255).
[14] P.P.P., Volgar’ eloquio, Napoli, Athena, 1976, pp. 33-34.
[15] P.P.P., Seconda forma de «La meglio gioventù», in La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Torino, Ei­naudi, 1975 p. 259.