“Che cosa sono le nuvole?” di PPP. Appunti di Lorenzo Sangalli

Lorenzo Sangalli, esperto di cinema, ha promosso nella primavera di quest’anno un ciclo di “conversazioni” sulle relazioni tra cinema e teatro per l’Associazione culturale-teatrale di Milano “Regula contra regulam”, di cui è uno tra i fondatori. Il primo di questi incontri (il 2 marzo, alle ore 19.30, presso l’Elf Teatro di via Emiliani 1 a Milano) è stato dedicato al corto pasoliniano del 1968  Che cosa sono le nuvole?, indagato come esempio di rappresentazione del teatro nel cinema. Pubblichiamo qui un estratto delle riflessioni che ci sono state inviate dal relatore, impegnato a dipanare anche il labirinto di punti di vista che, come per Las Meninas di Velasquez, conferiscono a  questo gioiello filmico di Pasolini il valore di una investigazione sull’esistere  e sul confine sfuggente tra verità e sogno.    

 

Pasolini e la rappresentazione del teatro nel cinema
Che cosa sono le nuvole? (1968)

di Lorenzo Sangalli
www.regulacontraregulam.eu

La marionetta Otello (Ninetto Davoli) viene accolto dai  suoi simili: è felice, ma non sa perché. Un altro attore/marionetta gli dice che è felice “perché è nato”.  E’ a tutti gli effetti un innocente, che non sa perché esiste:  constata solo di esistere, ed esistere è bello. Se vediamo questo evento dal punto di vista dell’attore, egli “entra nella parte”: il suo personaggio “nasce” in questo momento, ignaro di ciò che lo  attende dopo, nello svolgimento della storia.
Si genera dunque una doppia esistenza: da una parte l’attore, che sa già “come andrà a finire” e, dall’altra, il personaggio che vive l’istante senza conoscere a priori il proprio destino, che è poi ciò che accade all’attore, ovvero a tutti noi quando viviamo la nostra vita. Il personaggio, dunque, ad  ogni replica dello spettacolo, “rinasce” a nuova vita, mentre il suo artefice, l’attore, lo può vedere per così dire “dall’eternità”.

"La meninas" (1656) di Velasquez
“La Meninas” (1656) di Diego Velasquez

Pasolini mette il titolo del film sovrapposto a un quadro. Di che quadro si tratta? Fermiamoci un attimo perché in questo quadro risiede la chiave del film. Si tratta di un quadro di Velaquez, Las Meninas, dipinto nel 1656. Rappresenta una scena  di corte, ma con una peculiarità:  il pittore ha dipinto se stesso nell’atto di dipingere. Ma chi è l’oggetto del suo quadro, la cui tela vediamo da dietro? Dovremmo concludere che siamo noi, dato che ci sta guardando.  In realtà, sullo sfondo, al centro, notiamo l’immagine di due persone riflesse in uno specchio. E, se lo specchio riflette ciò che ha davanti, allora sono costoro ad essere l’oggetto del quadro del pittore. Però noi dovremmo essere loro, dato che occupiamo il loro punto di vista.
E, ancora, se quello non fosse uno specchio ma un vetro? E se fosse dunque quel signore in fondo sulla porta a illuminare, scostando la tenda, i due “spettatori” dietro il vetro? Però anche tutte le   damigelle, pur essendo “attrici” in primo piano nel quadro di Velasquez così come lo vediamo con i nostri occhi, non sono forse “spettatrici” nei confronti di coloro che vengono dipinti nel quadro che sta nel quadro? O, ancora, forse il pittore nel quadro sta in realtà dipingendo l’infanta, la quale si sta specchiando in uno specchio che coincide con il nostro punto di vista? Insomma, dove sta la verità, in questo quadro?
Teniamolo a mente, perché questa è la chiave: vedremo presto come  ci sia un  rapporto analogico molto preciso tra questa rappresentazione pittorica e il film di Pasolini. Con una precisa collocazione del punto di vista della cinepresa, Pasolini ci mostra quattro “mondi” che intende rappresentare nel film. In questi mondi vi è possibilità di azione differente, ma rispondente a un codice ben preciso:

– gli  spettatori, nel loro mondo, sono tenuti a fare da testimoni di ciò che succede, e ci si aspetta da loro che esercitino questo ruolo in modo totalmente passivo;
– i personaggi in scena si attengono a una parte inderogabile, che ne giustifica l’esistenza stessa; se così non fosse, in quel “mondo” regnerebbe il  caos;
– il demiurgo/regista, nell’alto dei cieli, è invisibile al pubblico ma viene interpellato dalle sue “creature”, alle  quali risponde, ma solo dal mondo “dietro le quinte”, mai se sono in scena, ovvero nella parte. Nel film, però,in un paio di occasioni il marionettista si rivolge direttamente a noi che guardiamo il film: teniamo presente ancora una volta il quadro di Velasquez con le sue  ambiguità …
– nel mondo “dietro le quinte”, infine, gli attori possono pensare, agire, ragionare e parlarsi liberamente, senza un copione o una partitura. Nel nascondimento dagli sguardi altrui acquisiscono un grado di “libertà”.

 Questi mondi, così organizzati spazialmente su più livelli, stabiliscono e determinano di fatto anche una gerarchia (il cui sovvertimento sarà usato da Pasolini per la metafora politica contenuta in quest’opera): dalle profondità della platea occupata dal popolo anonimo e  muto a un “cielo” in cui alloggia il demiurgo/marionettista. Il mondo dei personaggi che vivono la storia, e “nella storia”, è  una “terra di mezzo” (espressione squisitamente tolkeniana con cui si può fare un parallelo pensando lo   scrittore  come marionettista e il lettore come spettatore). Da  questa prospettiva, è interessante notare come la libertà ottenuta dalle marionette con il dietro le quinte sia in effetti una mossa “laterale”, uno spostamento “poetico” del punto  di vista, o dell’orizzonte, grazie al quale la creatura può vedere “da fuori” ciò che egli è, e magari, come capita a Otello, avere intuizioni  sulla  propria vera natura. Nel  primo dei due “dietro le quinte”, luogo, come si diceva, in cui gli  attori possono permettersi  di non recitare, l’attore/marionetta che interpreta Otello, nato da poco e subito portato in scena a recitare la sua vita, non si capacita della distanza che è in grado di percepire tra come lui si “sente” interiormente e la  parte che è costretto a recitare. Ed esprime questo suo dubbio a Iago “Perché dobbiamo essere così diversi da come ci crediamo?” Appena capisce che Otello si pone queste domande, Iago/Totò gli fa segno di tacere, preoccupato. E la risposta che dà l’anziano attore/marionetta apre un caleidoscopio di scatole cinesi: “Noi siamo in un  sogno dentro a un sogno”, gli dice. Tale allocuzione la troviamo nello stesso Shakespeare (ne La tempesta: “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”, dice Prospero) e in Calderon de la Barca con il suo La vita è sogno.Ma vi è anche una poesia di Edgar  Allan Poe che dice precisamente:

Tutto ciò che  vediamo o a cui rassomigliamo
è soltanto un sogno dentro un sogno.

E che l’essere umano viva la sua vita da “dormiente”,pur credendosi sveglio, nonché la prospettiva secondo cui il mondo come lo percepiamo con i sensi non sia altro che un “velo”, uno “specchio” che copre la vera essenza del “reale”, sono nozioni che  si ritrovano in tutte filosofie tradizionali. Ed è su  queste ambiguità e significati molteplici che si innesta la chiave data dal quadro di Velasquez posto sui   titoli di testa. Se da una parte l’attore sa di interpretare un personaggio fittizio,  reale quanto il sogno che svapora quando termina il sonno, l’innesto di un secondo livello di “sogno” insinua il dubbio che anche l’”io” stesso dell’attore (ovvero di tutti noi) possa essere in realtà fatto della stessa sostanza.  Teniamolo a mente per quando vedremo i “personaggi”  Otello e Iago compiere il loro viaggio al di là  della loro “morte”: varrà anche per l’essere umano?