Attilio, le poesie familiari, di Sandra Bardotti

Attilio, le poesie familiari

Bernardo e Giuseppe Bertolucci ricordano il padre Attilio e Pier Paolo Pasolini

15 novembre 2011, di Sandra Bardotti

Le poesie di Attilio che riguardano la famiglia sono di un’affettuosità così intensa che viene da chiedersi quali reazioni possono aver provocato all’epoca in chi ne era addirittura protagonista…

Il libro della rete, www.wuz.it

Attilio Bertolucci era un poeta, un intellettuale riservato, un giornalista, un insegnante di storia dell’arte, un collaboratore televisivo. Nel 1955 fu chiamato dal primo presidente dell’Eni, Enrico Mattei a dirigere la rivista aziendale Il gatto selvatico (1955-1964). Nel 1975 venne chiamato a dirigere la rivista Nuovi argomenti. Ma Attilio è anche un padre, guida ingombrante per due figli che hanno ricalcato le sue orme e poi se ne sono allontanati.  Lo ricordiamo al Festivaletteratura di Mantova 2011 con i figli Bernardo e Giuseppe, in occasione dell’anniversario dei 100 anni dalla sua nascita.

Attilio Bertolucci
Attilio Bertolucci

Giuseppe: Una reazione duplice. Da una parte, c’era una grande gratificazione nell’essere personaggi di testi così belli e riconoscersi in questa sorta di grande idillio, in questa comunità familiare molto bella. Dall’altra, anche una grande inquietudine, che è quella di essere personaggi, di riconoscersi in una terza persona. Per quel che mi riguarda, essere diventato poeta, prima di seguire le tracce aperte da Bernardo nel cinema, è stato un modo per riconquistare la prima persona che era andata perduta nei bellissimi versi di mio padre.

Bernardo: Anche io ho cominciato con l’imitazione del padre, scrivendo poesie. Poi, verso i sedici-diciassette anni, è nato il grande amore per il cinema. Già era cominciato quando da bambino mio padre, critico cinematografico della Gazzetta di Parma, mi portava al cinema con lui in città. È stato quindi anche per me una necessità, perché mi sono reso conto che come poeta mio padre era “imbattibile”. Dovevo trovare un’altra strada – la mia strada – ed era quella del cinema, che già avevo molto amato. Nel momento in cui ho pubblicato il mio unico libro di poesie all’età di 21 anni, finiva la mia storia con la poesia e incominciava quella con il cinema. Il mio libretto di poesie In cerca del mistero vinse un Premio Viareggio Opera Prima, e lì si chiuse una fase. Un mese dopo andavo a Venezia con il mio primo film La commare secca. Era il modo per trovare la mia voce vicino a quella così potente – mite ma potente – di mio padre.

Giuseppe: Ho un ricordo molto antico di mio padre poeta, che risale a prima che io sapessi leggere e scrivere, e che potessi riconoscermi in quei ritratti in versi. Ricordo la casa di campagna vicino a Parma, il salotto in cui egli scriveva di solito. C’era un armadio in cima al quale ho poi scoperto quintali di palle di carta accartocciate. Quando mio padre non era contento di quello che aveva scritto accartocciava il foglio e lo buttava sopra l’armadio. Per me, quindi, la poesia è prima di tutto questa montagna di carta sopra l’armadio.

Del cinema, invece, ho un ricordo collegato al primo film che ho visto, Biancaneve e i sette nani, all’età di 3-4 anni in un’arena estiva di Forte dei Marmi. Mio padre, ogni volta che sullo schermo appariva la strega cattiva, mi metteva davanti il suo cappello di paglia – un cappello che aveva alle spalle estati ed estati, e quindi un forte sentore di sudore. Per me, dunque, il cinema è prima di tutto un’esperienza olfattiva – l’olfatto è l’unico senso che il cinema non riesce a riprodurre.

Bernardo: La teleferica è una poesia che mio padre mi ha dedicato quando ho girato il mio primo film. Non credo di aver avuto quattordici anni, come lì è scritto. Penso che ne avevo almeno sedici. Forse quattordici anni suonava meglio che non sedici anni nel tempo della poesia, che manca di una sillaba. Lo stile, a volte, è più importante della realtà.

Mio padre iniziò verso la fine degli anni Cinquanta a comporre La camera da letto. Lo vedevo andare in giro con dei quaderni e non sapevo cosa fossero. Amava andare a fare passeggiate sull’Appenino parmense, si fermava, si sedeva su un albero caduto, e cominciava a scrivere. Io andavo lì ogni tanto e gli chiedevo cosa stesse scrivendo. Lui, colto in fallo, rispondeva thebedroom. Era così pudico che non avrebbe mai detto a noi bambini La camera da letto, titolo che avrebbe potuto indurci qualche strana fantasia. Pensavo che thebedroom fosse un nome indiano. Poi, quando ho cominciato a biascicare un po’ di inglese ho ricollegato thebedroom a La camera da letto.

La rosa bianca è il mio modo di raccontare il rapporto con Attilio. Leggevo, correvo in giardino e la rosa bianca era lì, visitata dalle ultime api dell’estate, esattamente come nella poesia. Nelle poesie di mio padre era tutto così ben descritto che non c’era per me più differenza tra poesia e realtà. Insomma, dentro di me continuo ancora a ringraziarlo per avermi insegnato a riconoscere la poesia in quello che ci circonda.

Coglierò per tel’ultima rosa del giardino,la rosa bianca che fioriscenelle prime nebbie.Le avide api l’hanno visitatasino a ieri,ma è ancora così dolceche fa tremare.È un ritratto di te a trent’anni,un po’ smemorata, come tu sarai allora.

Giuseppe: Nei miei ricordi, invece, a Roma mio padre aveva un luogo di elezione dove andava a scrivere – non ha mai avuto un vero e proprio studio: un bar gelateria in fondo a corso Vittorio che si chiama ancora La mela stregata. Sulla parete in fondo c’era un grande affresco con Biancaneve e i sette nani Disney, che per me era censurato viste le implicazioni psicoanalitiche.

Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini
Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini

Bernardo: Adesso mi viene in mente un particolare – forse inquietante, come si dice in questi casi: anche il mio primo film è Biancaneve e i sette nani. Ancora però non c’era il ‘cappello’ olfattivo.

Giuseppe si dimentica forse che ad Attilio erano anche scappati ‘brividi’ strani. In una poesia (A Bernardo a cinque anni) dice Vieni, corri a rifugiarti nella nostra ansia. Vi sembra giusto che un padre che ama tanto i propri figli chieda loro di rifugiarsi nell’ansia propria e di loro madre? C’è qualcosa di diabolico nel voler incorporare i figli nella propria ansia. Non so se ci siamo salvati o no da questo invito.

 

Giuseppe: Confesso che quella pupilla severa mi ha accompagnato per tutta la vita. Ogni tanto guardandomi allo specchio cerco di scovare dove si trova la severità di quello sguardo. È un modo curioso di arrivare all’identità, quello di essere raccontati da un padre attraverso la poesia.

Negli ultimi 15-20 anni ho trovato un secondo padre in Giorgio Caproni. Imbrogliare le carte, / far perdere la partita. / È il compito del poeta? / Lo scopo della sua vita? (Le carte): è una visione che si trova all’opposto di quella della poesia di mio padre. È stata fondamentale per la mia poetica, per trovare qualcosa che fosse diverso da mio padre.

Come accennato, Attilio fu direttore della rivista dell’ENI Il gatto selvatico. Era una rivista aziendale, rivolta ai dipendenti come ai quadri dirigenti, a tutti coloro che partecipavano dell’esperienza lavorativa. Vi hanno collaborato grandissimi scrittori italiani.

Bernardo: Ho un ricordo della rivista ‘dall’interno’. Un giorno, quando avevo circa 16-17 anni, mio padre mi portò nel suo ufficio – diceva sempre di avere il privilegio di non entrarvi mai prima delle undici del mattino, quando sapeva che gli impiegati erano lì già da molte ore. Improvvisamente entrò Enrico Mattei. Io, cercando di non far vedere come stavo tremando davanti alla sua figura mitica, gli dico: “So che anche lei pesca la trota con la mosca”. Mattei, che aveva una grande passione per questo tipo di pesca, mi dice: “Ah, peschi alla mosca? Bene, allora un weekend ti prendo con me sul mio aereo privato e andiamo a pescare in Scozia. C’è un fiumiciattolo con dei salmoni eccezionali, vedrai”. Questo è il mio unico ricordo di Mattei. Poi quando molti anni dopo ho visitato i luoghi frequentati da Mattei per un documentario intitolato La via del petrolio, ricordo che era molto emozionante ritrovarsi in Iran, dove l’ENI stava trivellando. Gli operai con i loro accenti emiliani parlavano della nostalgia di casa, e tutti rammentavano Mattei con una specie di riconoscenza che non credo si sia mai vista. Mattei era già morto da qualche anno. E non erano certo anni teneri sul piano politico.

Giuseppe: Credo sia davvero un segno dei tempi il fatto che Mattei abbia chiamato una persona così marginale rispetto al centro della società letteraria per dirigere il suo house organ, la sua rivista aziendale. Ha qualcosa di miracoloso questa connection tra un uomo che giocava con le sorti dell’energia che chiama un poeta così legato alla famiglia, all’idillio, un raffinatissimo cultore di letteratura francese e inglese, e gli affida la voce dell’azienda.

Attilio aveva una grande capacità di sintesi e semplicità, soprattutto quando si poneva il problema dei lettori de Il gatto selvatico, che non erano certo la cerchia degli intellettuali. Però io penso che il suo rapporto con la parola sia prima di tutto quello con la poesia, con la parola poetica. Ripensando a tutta la vita vissuta accanto a mio padre, mi accorgo che non ha mai avuto un atteggiamento pedagogico nei nostri confronti. Egli puntava invece a mostrarci le cose che gli piacevano e, casomai, insegnarci quello che è brutto sul piano dell’estetica. E se c’è un valore che ci ha sempre comunicato è proprio quello della bellezza e della poesia. Avendo vissuto anni in cui le passioni ideologiche e i conflitti ci hanno visto molto appassionati, essendo trascorse decine di anni, mi accorgo che questa sorta di valore assoluto rimane una specie di centro di gravità. Il poeta cerca il bello prima ancora che il vero, e questa è una delle lezioni che mi sento di aver ricevuto involontariamente, proprio con l’esempio della sua vita.

Bernardo Bertolucci e Pier Paolo Pasolini durante una pausa di lavorazione del film "Accattone" (1961)
Bernardo Bertolucci e Pier Paolo Pasolini durante una pausa di lavorazione del film “Accattone” (1961)

PASOLINI, L’ALTRO PADRE

Molti si chiedono cosa direbbe Pasolini se fosse ancora qui.

Bernardo: Pasolini non potrebbe essere qui perché la sua vita non poteva che essere piuttosto breve. La temperatura a cui la sua vita bruciava era troppo forte e non permetteva certo una tranquilla vecchiaia.

Io l’ho conosciuto quando avevo circa sedici anni. C’è anche la traccia in una poesia che scrisse, intitolata A un ragazzo, dove mi racconta la storia di suo fratello Guido, partito partigiano con una pistola e un libro di Montale nello zainetto, e mai più tornato. Finisce con due versi che cito a memoria: “Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, / finirà non chiesto, si perderà non detto”.
Dopo alcuni brevi incontri, quando Pier Paolo venne ad abitare sotto casa nostra in via Carini, io, che di solito facevo sempre leggere le mie poesie a mio padre, cominciai a farle leggere per primo a Pier Paolo. Noi abitavamo al quinto piano, lui con la madre Susanna e la cugina Graziella Chiarcossi abitavano al primo. Correvo per le scale così veloce che avevo anche paura di farmi male. Forse mio padre si è un pochino amareggiato del fatto che ormai non era più lui che mi dava un giudizio. Pier Paolo è il primo degli altri padri che ho avuto. Non sono stati tanti, solo due o tre, ma mi sono serviti proprio per prendere una certa distanza dal padre.
Un giorno, incontrandomi sulla porta di casa, Pier Paolo mi chiede: “Ma tu volevi fare cinema, giusto?”. E io: “Certo”. “Bene, io farò un film, il mio primo film, e tu sarai il mio aiuto regista”. E io dissi: “Ma Pier Paolo, è una follia! Non sono mai stato su un set, non ho mai fatto l’aiuto regista”. E lui: “Eh, nemmeno io ho mai fatto il regista”. E uscì Accattone.
Pier Paolo è stato l’ultimo grande profeta. Gli Scritti corsari, gli editoriali sul Corriere della Sera del ’74-’75, sono veramente una serie di profezie precise e ineludibili sugli anni a venire.

Giuseppe: Mi sono occupato molto negli ultimi anni di Pasolini. Quegli anni fine ’60-’70 erano un momento di grande libertà. Oggi a nessuno verrebbe in mente, non solo di fare, ma nemmeno di concepire un film come Salò. È un segno dei tempi, di un livello di libertà d’autore che mi sembra il pensiero unico dei media abbia molto affossato.