A Napoli, ex Asilo Filangieri, una lettura lacaniana dei film di PPP

A Napoli, al Convento di San Gregorio Armeno, dove vissero le religiose benedettine, apparteneva già nel 1572 una fabbrica per l’esercizio di arti e mestieri. Nel primo dopoguerra, l’edificio fu acquistato dalla Contessa Giulia Filangieri di Candida che ne destinò l’utilizzo a convitto per giovani orfani. Dopo il terremoto del 1980, l’asilo fu abbandonato del tutto. Nel 2012 l’edificio è stato occupato da un collettivo di operatori dello spettacolo e della cultura in segno di protesta contro il restauro e il nuovo abbandono dei locali, che avrebbero dovuto ospitare la sede del Forum delle Culture 2014, mai partito. Oggi il collettivo si è sciolto in una comunità aperta e dai confini non delimitati che è affidataria dell’immobile, all’interno del quale vengono svolte attività culturali e sociali senza scopo di lucro.
E’ in questo spazio oggi denominato ex Asilo Filangieri, in vico Giuseppe Maffei 4,  che si terrà a ingresso libero dal 14 gennaio all’11 febbraio 2016 una interessante retrospettiva della filmografia di Pasolini, con la proiezione di cinque tra le sue espressioni più significative. Ne è curatore  Fulvio Sorge della Scuola lacaniana di psicoanalisi, che al progetto conferisce uno spiccato spessore di valenza filosofica, incentrata intorno alla categoria lacaniana del “desiderio” come mancanza e alla sua vanificazione nell’epoca contemporanea, che al desiderio ha sostituito il possesso cumulativo, indiscriminato, feticistico. Una lettura originale dell’opera pasoliniana che ricaviamo dal sito dell’ex Asilo, in cui compaiono le intenzioni generali della programmazione e le schede dei cinque film in calendario.  

www.exasilofilangieri.it

Pignon-Ernest. Intervento all'ex Asilo Filangieri (Napoli)
                                            Pignon-Ernest. Intervento all’ex Asilo Filangieri (Napoli)

Calendario

14 gennaio | Accattone
21 gennaio | Il Vangelo secondo Matteo
28 gennaio | Uccellacci e uccellini
4 febbraio   | Teorema
11 febbraio | Edipo re
ore 21.00

«Che la realtà umana sia mancanza basterebbe a provarlo l’esistenza del desiderio come fatto umano … Perché il desiderio sia desiderio a se stesso, bisogna che sia mancanza, ma non una mancanza-oggetto, una mancanza subita … bisogna che sia la sua propria mancanza, mancanza d’essere, sollecitato nel suo più intimo essere dall’essere di cui è desiderio. Così testimonia l’esistenza di una mancanza nell’essere della realtà umana». (J. Lacan, Il Seminario, Libro X. L’angoscia, 1962-1963)
Il desiderio è incontenibile tensione che sorge e si fa spazio nel grembo di una ancestrale separazione della quale il soggetto subisce la condanna. Lungi dal presupporre un soggetto, il desiderio può essere colto solo nel punto in cui qualcuno non cerca o non coglie più un oggetto così come non si coglie come soggetto. Il piano di consistenza o di immanenza comporta dei vuoti e dei deserti. Ma di questa perdita originaria e costitutiva l’uomo della società contemporanea non vuole sapere, sostituisce al desiderio il possesso indiscriminato e cumulativo dei gadget di cui non è mai soddisfatto, sazio; piuttosto che perdersi negli imbrogli dell’amore, per ritrovare attraverso la mancanza il proprio del suo desiderio, si fa agire da un godimento mortifero, tanto più quando assume le parvenze della legge. Godimento che confligge con la dimensione di un’etica che, facendo a meno del cielo stellato, ma trovando il limite nel fantasmizzare il proprio desiderio, faccia fronte della prevaricazione delle passioni. Così la società laica che ha liberalizzato l’amore, che sognava un uomo liberato dal giogo del lavoro e restituito a una felicità primigenia e naturale della sua relazione con il mondo (Marcuse) si è trasformata nella società che prescrive la ricerca di una soddisfazione permanente portata all’estremo delle possibilità umane, che invidia alla bestia attaccata al polo dell’istante quell’incoscienza che la fa godente. Liberazione dal corpo che esita nella psicosi.
Michel Foucault opera una distinzione tra le società organizzate dalle leggi e quelle organizzate dalle norme. Nel mondo della legge vi è una distinzione chiara tra il dentro e il fuori-legge. La figura della legge è sempre accompagnata da ciò che le è esterno: i margini e il fuori-legge. L’interdetto è l’altra faccia della legge. Nelle società delle norme dentro e fuori si confondono in modo tale che il soggetto non si trova mai tutto nel rispetto delle norme o nella loro eccezione. Nuove norme possono sempre essere applicate per complicare lo spazio delle regole senza che il loro statuto in rapporto alla legge sia chiaramente definito. Si producono allora spazi indiscernibili, residuali, selvaggi, nuove norme di identificazione di genere, di godimento e fruizione degli oggetti, dei gadget della società post-moderna, non più sottomessi al registro dell’interdizione ma assoggettati alle norme della tecnologia del godimento. L’istanza vitale della società dei consumi si produce come adesione a un godimento ininterrotto. I soggetti trovano radici in un registro del consumo in ragione della spinta indiscriminata al godere. La società delle norme si articola intorno a una verità sociale astratta, ispirata dalla falsa democratizzazione di un diritto mondializzato al piacere, al luogo comune, alla circolazione acritica di opinioni, al gossip, e così lavora, animata dalla pulsione di morte, al naufragio del soggetto. L’eclisse dei padri, la femminilizzazione del mondo, la prescrizione dell’omogeneità dei godimenti, la degradazione gergale dei significanti, l’affermazione di un tempo senza tempo, ironica parusia dell’impossibilità a perdere, a crescere, necessitano di modalità di supplenza contingenti, che si presentano nella congerie dei nuovi sintomi. L’uso e l’abuso del corpo cerca di nominarne il godimento facendone l’equivalente dell’oggetto causa, lo degrada al feticcio, lo sente incidendone le carni, smaterializzandolo nella virtualità di relazioni, speculari quanto improvvide e inefficaci, nelle pseudo-vite degli avatar della virtualità. Lo schermo dell’ordinateur diventa un Oscenario che si presta a tutte le metamorfosi, gli imbrogli, le mistificazioni.
Piuttosto che sorvegliare e punire, comprendere e condividere fanno dei figli l’oggetto compartecipato del godimento dei genitori. Adolescenza non sintomatica quanto priva di angoscia e desiderio. Il diniego o la preclusione che rendono inoperante la funzione metaforica, il taglio, la mancanza, producono la sfilata di oggetti metonimici intorno a cui si organizzano e si scatenano pulsioni parziali fuori linguaggio: possesso dell’altro, consumazione, divoramento, evacuazione, scarto senza resto. Perverso polimorfo alla lettera in questo l’adolescente si fa figlio del suo tempo.
A portarne testimonianza nella sua opera, che coincide con la sua vita stessa, litorale tra il sapere e la morte, tra il godimento e la deiezione, Pier Paolo Pasolini interroga l’impossibile della trasmissione del sapere come critica radicale dello sterminio delle menti dei giovani nella società dei consumi. Nel progetto, nella messa in tensione di questa testimonianza ineludibile, indispensabile, non differibile nel quarantennale della sua morte, se ne vuole portare ragione, si prova a interrogare ancora una volta, attraverso l’immaginario di alcuni suoi film, la dimensione etica del suo discorso di preveggenza rispetto ai falsi miti, alle declinazioni perverse del desiderio così come appare nella società contemporanea.
Vengono presi in esame cinque film che esemplificano il tragitto personale e creativo, la poetica di Pasolini, e provano a evidenziarne, attraverso la riflessione psicoanalitica, l’incandescente attualità.

Accattone (Italia,1961 – 116’)
è l’esordio folgorante del poeta friulano, è la rappresentazione del suo desiderio che mira a ritrovare una pienezza vitale, una dimensione erotica primaria che sopravviva al disagio della civiltà. Nel bianco e nero ieratico, sacrale della immagini (mirabilmente fotografate da Tonino Delli Colli), si racconta la storia di accattone, borgataro romano, e della prostituta Maddalena che lo mantiene. La fantasmatica del regista, antirealistica, antiesistenzialistica, mira a rappresentare un’età primigenia dell’uomo, una liberazione naturale, rousseauiana, dalle catene del progresso, una “ vitalità sottoproletaria autentica e tragica “(Volpi), riprendendo le tematiche esposte nei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Accattone, film capolavoro che si occupava di borgate romane che non esistono più e di sottoproletari ormai divenuti piccolo-borghesi con doppia o tripla macchina in famiglia, è assolutamente calato nel presente. Sarà la carica eversiva del film, sarà la sua dimensione poetica, sarà l’innovazione nel linguaggio sulla quale è stato elaborato, ma Accattone rappresenta anche per i cinefili del terzo millennio un punto di riferimento chiaro sull’uso di una lingua, quella audiovisiva, spesso involuta nonostante le prodigiose mutazioni della tecnologia.

Margherita Caruso, giovane Madonna del "Vangelo" di Pasolini (1964)
         Margherita Caruso, giovane Madonna nel “Vangelo” di Pasolini (1964)

Il Vangelo secondo Matteo (Italia, Francia,1964 – 142‘)
Ai ragazzi di vita si sostituiscono gli apostoli raccolti intorno a Gesù, alla sua parola ripresa alla lettera. Pasolini tratta fedelmente il racconto sacrale, alla ricerca di una purezza, di un ‘ assoluta antinomia tra la parabola della vita del Cristo e della sua morte in croce e la dissipazione, la perdita di senso, l’opacamento del desiderio in favore del consumo della società massificata. Novella ideale quanto scarna, scabra come i paesaggi di Matera in cui il film viene girato, e, per questo, ancora una volta scandalosa in quanto fedele al messaggio cristiano, un cristianesimo che nella bellezza e severità delle immagini rappresenta l’essenza della ricerca di un desiderio autentico, di una comunione della carne che la elevi al rigore della mancanza, della rinunzia ai piaceri mondani, preghiera laica quanto fervente di un ritorno alle cose perdute. Non a caso la madre del regista compare sotto le vesti della Madonna anziana, gli altri protagonisti sono scelti tra la gente comune, la macchina da presa insegue il mutevole gioco degli affetti sui volti dei protagonisti e rappresenta composizioni memori della pittura quattrocentesca. Enrique Irazoqui, lo studente spagnolo che interpreta il personaggio di Gesù, ha un volto che ricorda El Greco, i bizantini e i primitivi. Questo volto, spesso grave oppure adirato, più di rado sorridente, è l’icona del regista.
Le sequenze silenziose del Vangelo secondo Matteo sono le più belle, appunto perché il silenzio è il mezzo più sicuro per farci fare il salto vertiginoso all’indietro che ci propone Pasolini con il suo film. La parola, nella sua genesi, è sempre storica, didascalica, detiene un potere; il silenzio si pone fuori della storia, nell’assolutezza delle immagini: il silenzio della Annunciazione, il silenzio che accompagna la morte di Erode, il silenzio degli apostoli che guardano Gesù e di Gesù che guarda gli apostoli, il silenzio di Giuda che sta per tradire, il silenzio di Gesù che sa di essere tradito. Il silenzio nel film di Pasolini non è, d’altra parte, quello del cinema muto, cioè un silenzio per difetto; bensì è il silenzio del parlato, cioè un silenzio plastico, espressivo, poetico.

Uccellacci e uccellini (Italia, 1966 – 88’)
Di questo film Pasolini dice: «E’ il film che ho amato e continuo ad amare di più, prima di tutto perché come dissi quando uscì è “il più povero e il più bello” e poi perché è l’unico mio film che non ha deluso le attese. Collaborare con Totò al film è stato molto bello: era un uomo buono e senza aggressività, di dolce cera. Oltre che un film con Totò, Uccellacci e uccellini è anche un film con Ninetto, attore per forza, che con quella pellicola iniziava la sua allegra carriera. Ho amato moltissimo i due protagonisti, Totò, ricca statua di cera, e Ninetto. Non mancarono le difficoltà, quando giravamo. Ma in mezzo a tanta difficoltà, ebbi in compenso la gioia di dirigere Totò e Ninetto: uno stradivario e uno zufoletto. Ma che bel concertino!».
Il regista dunque volle due protagonisti presi tra la “brava gente”: un padre e un figlio, Totò e Ninetto, nella loro surreale innocenza, camminano senza una meta precisa, parlando tra loro di mille cose e non meravigliandosi di niente, neanche quando incontrano un corvo parlante che dice di essere figlio del dubbio e della coscienza. Il corvo racconta loro la storia di fra’ Ciccillo e fra’ Ninetto che predicavano agli uccelli, tentando di rendere evangelici i falchi. Invano. I falchi, secondo il loro intuito, sbranano i passeri e la perplessità dei due è risolta da S. Francesco che li invita a ricominciare tutto da capo. Tornati ad essere se stessi, padre e figlio si comportano di volta in volta da falchi e da passeri, continuando il loro cammino senza meta. Alla fine ammazzeranno il corvo troppo fastidioso con la sua aria saputa e se lo mangeranno. Pasolini, in questo film , elabora la nota teoria della inarrestabilità del processo negativo di omogeneità culturale tra ceti diversi, che riguarda l’assimilazione di parti del costume borghese, soprattutto i consumi intesi come status simbolo da parte di sempre più estese categorie popolari. Ricordiamo a questo proposito un altro film rigorosamente critico sull’assimilazione del proletariato alla classe borghese, La classe operaia va in paradiso. L’ironia surreale del film mira a una critica, radicale quanto assolutamente adeguata a vicende storiche contemporanee, dell’identificazione del soggetto ad essere altro totalmente virtuale, lungo una deriva psichica che tende a sovrapporsi alla precedente identità. Nascono nelle classi subalterne nuovi desideri e il bisogno di far parte in qualche modo del recente sistema dominante borghese. Pasolini con questo film prospetta, per la lotta di classe del suo presente e del futuro, una vittoria borghese su diversi fronti, in quanto il miracolo economico degli anni ’60 che porterà l’Italia ad essere una delle maggiori potenze industriali del pianeta sposterà con i media l’asse del conflitto dalla rivoluzione al riformismo, disinnescando tutte le ideologie radicali di massa che avevano come obiettivo il ribaltamento del sistema o la sua difesa reazionaria sanguinosa.

Teorema (Italia, 1968 – 98′)
Al contrario, Teorema viene proposto come il paradigma dell’inquietudine del soggetto, quando qualcuno scompagina il suo equilibrio sintomatico. Pasolini mette in scena la distruzione, l’annientamento di ciò che costituisce l’uomo come realtà passionale, come maschera, come persona ; in questo luogo l’esca del desiderio aspira il soggetto nel suo fantasma, punto di tenuta rispetto al godimento, e ne consente la dissipazione delle istanze passionali e narcisistiche. L’angelo-fallo turba l’economia emotiva di una famiglia benestante, in cui ogni soggetto è arroccato nella pienezza del suo io e delle sue scelte, centrate sull’egocentrismo e sulla neutralizzazione narcisistica delle problematiche che il desiderio dell’Altro comporta. La sofferenza emerge attraverso il sintomo, è il modo di sapere di sé del soggetto smascherato dalla presenza dell’Altro che gli si propone sotto le vesti dell’impossibile dell’amore. A partire da questo decentramento la consistenza dell’io inizia lentamente a sfaldarsi, a impoverirsi, smarrendo tutte le parole note, la chiacchiera che lo faceva solido e conforme, e che adesso perde ogni significato. Di fronte alla sofferenza dell’Altro, alla disperata ricerca di una verità soggettiva, l’ospite angelo, fallo, oggetto causa, è silenzioso, la parola fa eco a se stessa, la risposta che ognuno darà a questo silenzio suggellerà la sua mancanza. Emilia, la serva, coglierà alla lettera la parola non detta e si farà, nel reale, saint-homme di se stessa.

Silvana Mangano in "Edipo re" (1967)
                                                               Silvana Mangano in “Edipo re” (1967)

Edipo re (Italia, Marocco, 1967 -104’)
Il film chiude logicamente il percorso di senso che questo cineforum vuole proporre. Pasolini, a proposito di questa opera, ha detto: «Anziché proiettare il mito sulla psicoanalisi, riproietterei la psicoanalisi sul mito».
Tra Laio ed Edipo si pone la questione di ciò che possiamo considerare come diritto di successione impostato sul possesso indiscriminato del godimento. La crudeltà di Laio, la seduzione incestuosa di Giocasta, il tragitto destinale di Edipo mettono in scena nel mito lo sfalsamento tra desiderio e ideale che è paradigmatico dell’adolescenza, la lotta generazionale che ha come posta la soggettivazione dell’interdizione del godimento. La mancanza di questo elemento di struttura che buca tanto il maestro quanto l’allievo, la trasmissione di un sapere universitario come feticcio e mercificazione della relazione simbolica è l’istanza critica che anima la poetica pasoliniana quando egli prevede la catastrofe, l’inabissamento di quella spontaneità naturale della giovinezza, quel tempo del desiderio che illumina gli occhi e rinvigorisce le membra. Solo una relazione giocata sulla consapevolezza dell’impossibile del reale, su un desiderio continuamente rilanciato dalla mancanza, l’inesorabile perdita di godimento che ogni scelta soggettiva comporta, può improntare di sé una pratica educativa che non si voglia perversa.
Il soggetto adolescente dovrebbe essere messo al corrente che il sapere si sviluppa su due versanti specifici: il primo riguarda un sapere di tipo immaginario che si concretizza nella nozione che va ad arricchire l’immagine che il soggetto ha di sé. Si tratta di un sapere che non coincide con il soggetto dell’inconscio ma riguarda unicamente il versante dell’Io Ideale. Sul versante opposto c’è il sapere dell’Altro, che riguarda il godimento e il suo rapporto con il godimento. Sapere che non compare sulla scena scolastica, ma egualmente è presente in qualità di effetto. Servo, figlio, studente – come Edipo insegna – sono la medesima cosa per quel godimento al quale ambiscono e che è tenuto stretto da chi è reputato possessore del sapere: il padrone, il padre e l’insegnante.
L’opera di Pasolini da testimonianza dell’inadeguatezza del soggetto dell’inconscio di fronte al reale, introduce magistralmente alla questione di quale soggettivazione è possibile nella pervasività immaginaria delle società opulente, e dell’impresa, impossibile quanto necessaria, di veicolare in ogni pratica pedagogica l’etica della psicoanalisi.
Sullo sfondo sintomatico della sua vita e della sua morte questo il lascito vivo e fecondo del poeta friulano. “Ora il dolore che provo morendo è per la sola cosa che amo: la carne tanto masticata e mai ingoiata di mia madre”.
(a cura di Fulvio Sorge – Scuola lacaniana di psicoanalisi)

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