Turchia e Siria: il Medioriente immaginario di “Medea” (1969)

PAGINE CORSARE

Fondo Angela Molteni

La vita

“Pagine corsare” presenta una scheda su Medea, il film del 1969 a più alto budget della carriera di Pasolini, che tuttavia radicalizza ancora di più la natura anticommerciale del suo cinema. Con questa pellicola, che rilegge personalmente il mito, il regista ritorna anzi al cinema ideologico, che riflette sull’incontro- scontro tra culture diverse, tra sacralità della barbarie e cinismo della civiltà razionale. Ne è investito anche il paesaggio scelto come fondale (la Cappadocia e la Siria, da un lato; la laguna di Grado o Pisa, dall’altro), un  paesaggio trasfigurato in geografia immaginaria.

Medea. Incontro-scontro tra culture diverse

Tra maggio e agosto 1969 Pasolini girò, prevalentemente in Siria e in Turchia, Medea: era divenuto un regista di punta del cinema italiano e ciò gli procurò critiche di connivenza con il potere, poiché l’industria cinematografica rappresentava uno degli strumenti della omologazione di massa. Nel corso di una trasmissione televisiva a uno studente che gli rivolgeva appunto tali accuse, Pasolini rispose: «Io strumentalizzo la produzione che c’è, la produzione che c’è strumentalizza me, vediamo un po’, facciamo questo braccio di ferro, vedremo un po’ di chi sarà la vittoria finale».
La partecipazione, nel ruolo di protagonista, di Maria Callas, presentata a Pasolini dal produttore del film Franco Rossellini, venne considerata un evento straordinario, anche perché la famosa cantante lirica, dopo avere interpretato sulle scene dei teatri d’opera di tutto il mondo Medea, l’opera di Luigi Cherubini, aveva già ricevuto offerte, sempre rifiutate, per una interpretazione cinematografica del personaggio. Nacque tra Pasolini e la Callas una grande, affettuosissima amicizia che continuerà anche dopo la lavorazione del film.
Pasolini descrive così una scena di Medea e parla della scelta della Callas quale protagonista del film:
«Nel fondo di una di queste vallette – sul greto del fiume – c’è intorno il grano  – e file di pioppi e ulivi spinosi, argentei contro il rosa delle centinaia di cuspidi – cammina verso di me e si imprime violentemente nella mia retina, una piccola folla assurda. (…)
Al centro c’è una figura femminile. Essa è coperta fino all’altezza del seno da un velo bianco, dietro a cui si intravede appena il viso e la lunga capigliatura. Da sotto questo velo bianco, pende un mazzo di collane dorate, grossissime, che mandano un suono opaco, come i campanacci delle mandrie: penzolano, queste collane, su una “pazienza” azzurra listata d’argento – sembra vecchissima, di quelle conservate nelle teche dei musei, che a toccarle, si direbbe che debbano andare in polvere. Sotto la pazienza cade una grande sottana nera: che viene sostenuta per i lembi da due o tre persone, attente a tenerla alta fin sopra il ginocchio della donna che l’indossa. Essa procede così come una regina non vista. Dietro a lei, viene un altro gruppetto del seguito: e tra questo, la fedele cameriera, vestita di rosso e di verde, che tiene per il guinzaglio i due magici cagnolini, innocenti come due insetti, due farfalline al loro primo svolazzare qua e là; e insieme decrepiti, di una saggezza di re contadini. E dietro ancora, con gli strumenti delle loro tecniche in mano, tutti gli altri” (da Avanza un corteo: è la Callas, “Tempo”, n. 26, 28 giugno 1969).
“Ho pensato subito a Medea sapendo che il personaggio sarebbe stato lei. Delle volte scrivo la sceneggiatura senza sapere chi sarà l’attore. In questo caso sapevo che sarebbe stata lei, e quindi ho sempre calibrato la mia sceneggiatura in funzione della Callas. […] Cioè, questa barbarie che è sprofondata dentro di lei, che viene fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata, insomma i dieci anni passati a Corinto, sarebbero un po’ la vita della Callas. Lei viene fuori da un mondo contadino, greco, agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese. Quindi in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio quello che è lei, nella sua totalità complessa».
(in Nico Naldini, Pasolini, una vita, ried. Tamellini, Verona 2014,  p.409)

"Medea" (1969)
                                             “Medea” (1969)

Pasolini sintetizzò il significato del film  anche nell’intervista a Jean Duflot dal titolo Il sogno del centauro (1969-1975):
“Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti. […] Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche citazione. […] Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo. […] Confrontato all’altra civiltà, alla razza dello “spirito”, fa scattare una tragedia spaventosa. L’intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due “culture”, sull’irriducibilità reciproca di due civiltà”.
Duflot gli chiese ancora se la narrazione mitica racchiudesse implicazioni storiche attuali, come in Edipo re, Il Vangelo secondo Matteo o Porcile.
«[…] potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio”, rispose Pasolini, “che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica. Del resto, nell’irreligiosità, nell’assenza di ogni metafisica, Giasone giunge al punto di essere lui il nesso con la nostra storia moderna. All’inizio, quando era bambino, Giasone vedeva nel centauro un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che passava il tempo, il centauro è divenuto ragionatore e saggio, ed è finito col divenire un uomo uguale a Giasone. Alla fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per questo si aboliscono. Il superamento è un’illusione. Nulla si perde».
(Il sogno del centauro, in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S.De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano 1999, pp.1504-1506)

Oltre al gran numero di attori non professionisti, come di consueto presenti nei film di Pasolini, vi sono in Medea le presenze, in ruoli principali, del saltatore olimpico Giovanni Gentile (Giasone), di Massimo Girotti (Creonte), di Laurent Terzieff (il centauro). Elsa Morante, infine, collaborò con Pier Paolo Pasolini alla scelta delle musiche (brani religiosi antichi dal Giappone, canti e danze d’amore iraniani).

Maria Callas in "Medea" di Pasolini (1969)
                        Maria Callas in “Medea” di Pasolini (1969)

Medea. Riassunto

Siamo nella regione barbara della Colchide, nella città di Ea, dove si trova il vello d’oro. Qui sta per avvenire un rito di fertilità della terra, un sacrificio umano alla presenza dei figli del re Eeta, un uomo e una donna: quest’ultima, Medea (Maria Callas), sacerdotessa di Ecate, dea della morte, presiede il sacrificio. La vittima viene immolata, smembrata, e il suo sangue viene usato per fertilizzare la terra. Nella bacinella che contiene il suo cuore, degli eletti andranno a bagnarsi le mani. La lunga sequenza del sacrificio avviene nel silenzio, accompagnata solo da un canto funebre ancestrale. Medea gira la ruota del sole in mezzo al campo, e pronuncia le uniche parole dell’episodio, con cui chiarifica il senso del rito ciclico della vita: «Dà vita al seme, e rinasce il seme».
Giasone, ormai ventenne (Giuseppe Gentile), torna nella città di Jolco e rivendica il trono a Pelia. Pelia gli promette di concedergli il trono se Giasone riuscirà a conquistare il vello d’oro. Giasone, spavaldamente, accetta la sfida, e si imbarca su una zattera, Argo, la prima nave della storia. Giasone e gli argonauti approdano nella Colchide, e saccheggiano tutto quanto trovano sul cammino. A Ea c’è agitazione, Medea prevede l’impresa, sogna il bel volto di Giasone prima che egli arrivi realmente nella città, e, senza esitazione, decide il suo destino. Di notte si fa aiutare dal fratello a rubare il vello d’oro, poi insieme a lui fugge su di un carro. Canti di catastrofe salgono nel giorno in città, alla notizia dell’accaduto. Eeta raduna l’esercito nel tentativo di recuperare i figli e il vello. Il carro di Medea raggiunge i cavalli di Giasone e gli argonauti. Medea, all’improvviso, uccide il fratello e si unisce a Giasone, e con un gesto terribile d’amore e dedizione gli dona il vello. Poi, per fermare l’esercito di Eeta che avanza, Medea sparge uno ad uno i pezzi del corpo del fratello per la strada, costringendo Eeta a fermarsi per ricomporli.
Medea e Giasone raggiungono la zattera degli argonauti e tornano insieme verso Jolco. Ma Medea, raggiunta di nuovo la terra, cade nel panico: non sente più la voce del sole e della terra, e mentre gli argonauti, lontano, cantano, lei avverte il disastro del cambiamento. Ma Giasone giunge a prenderla per mano, la porta nella sua tenda, e Medea si calma nell’atto d’amore. Giunto di nuovo a Jolco con il vello, Giasone rivendica il regno. Pelia non mantiene la promessa, e Giasone, con sprezzo, punta ad altre conquiste, ben più ambiziose del piccolo regno di Jolco. Medea è vestita dalle ancelle di Jolco con i colori della nuova civiltà.
Sono passati dieci anni, Giasone e Medea vivono a Corinto, hanno avuto tre figli, ma Giasone ha da poco abbandonato Medea per chiedere in sposa la giovanissima Glauce (Margareth Clementi), figlia del re Creonte (Massimo Girotti). Medea, umiliata e lasciata sola con i suoi figli, soffre, e vuole vedere come sta Giasone senza di lei. Giasone incontra il centauro, ormai sdoppiato: il centauro metà animale lascia al centauro-uomo il compito di spiegare i sentimenti di amore che ancora, a sua detta, legano Giasone a Medea. Ma Giasone non sa rendersene conto, e, sotto lo sguardo non visto di Medea, si diverte spensierato in attesa delle nozze. Medea torna a casa, e si rende conto che dieci anni sono passati invano, di essere rimasta “un vaso pieno di un sapere non mio”. Medea sogna la Colchide, parla di nuovo con il sole, e così giunge, per amore, alla recrudescenza dei gesti con cui era nato il suo amore per Giasone: si vendicherà di lui donando a Glauce le sue antiche vesti, maledicendole. Queste vesti, portate in dono alla sposa dai suoi figli, a contatto con il corpo, dovranno incendiare la pelle di Glauce. Le immagini della vendetta passano sul volto piangente e silenzioso di Medea. Il sogno ha termine. Ora ha inizio la realtà. Medea va a parlare col re di Corinto Creonte, che ha deciso di bandirla dalla città. Non riesce a far altro che prolungare di un giorno la sua permanenza e quella dei suoi figli a Corinto. Medea medita di vendicarsi su Giasone. Lo fa chiamare, e lo invoca di perdonarla prima che lei lasci la città. Giasone, con un gesto di affermazione del suo possesso, fa per l’ultima volta l’amore con Medea. Più tardi, mentre Giasone dorme, Medea richiama i suoi figli e gli affida le vesti da donare a Glauce, strappando a Giasone la promessa di intercedere presso Creonte affinché lasci vivere a Corinto i suoi figli. Giasone e i tre figli giungono alla reggia di Corinto. Glauce, terrorizzata dal dono e dalla visione dell’antica vita del suo promesso sposo, corre fuori dal palazzo e si suicida, seguita dal padre Creonte, anche lui impaurito e sconvolto dalla consapevolezza delle arti magiche di Medea. Medea è a casa, serena. Chiama i figli uno ad uno, gli fa il bagno prima di farli addormentare, e poi, con tenerezza materna, li uccide prima di metterli a letto. L’indomani, prima di abbandonare Corinto, Medea appare tra le fiamme del sole, che, invocato, sta ormai incendiando la città, con i corpi dei figli accanto a sé. Giasone, sconvolto, vorrebbe salutare un’ultima volta i suoi figli, ma Medea, carica di odio, gli dice che “niente è più possibile ormai”. Il sole rosso sangue chiude, così come l’aveva aperta, la scena del film.
(Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro-l’Unità, Milano 1995, pp.121-123)

[info_box title=”Medea (1969)” image=”” animate=””]da Medea di Euripide

Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini
Fotografia Ennio Guarnieri; scenografo arredatore Dante Ferretti
Architetto Nicola Tamburro; costumi Piero Tosi
Commento musicale Pier Paolo Pasolini con la collaborazione di Elsa Morante
Montaggio Nino Baragli
Collaborazione alla regia Sergio Citti; assistente alla regia Carlo Carunchio
Interpreti e personaggi Maria Callas (Medea); Laurent Terzieff (il Centauro); Massimo Girotti (Creonte) Giuseppe Gentile (Giasone) e inoltre Margareth Clementi, Sergio Tramonti, Anna Maria Chio
Produzione San Marco SpA (Roma), Le Films Number One (Parigi) e Janus Film und Fernsehen (Francoforte); produttori Franco Rossellini, Marina Cicogna; produttori associati Pierre Kalfon, Klaus Helwig
Pellicola Kodak Eastmancolor; formato 35 mm, colore; macchina di ripresa Arriflex
Sviluppo e stampa Technostampa; sincronizzazione NIS Film
Distribuzione Euro International Films
Riprese maggio-agosto 1969; teatri di posa Cinecittà; esterni Cappadocia (Turchia), Aleppo (Siria), Pisa, Marechiaro di Anzio, Laguna di Grado, dintorni di Viterbo
Durata 110 minuti
Prima proiezione 27 dicembre 1969, Cinema Mignon, Milano [/info_box]